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Giuseppe Uncini. Realtà in equilibrio
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Dopo le personali di Carlo Lorenzetti, Bruno Conte e Giulia Napoleone, la Galleria Nazionale celebra Giuseppe Uncini, concludendo il ciclo di mostre Realtà in equilibrio, curato da Giuseppe Appella.
Nel 1982, per una mostra alla Galleria Il Segno di Roma che comprendeva Lorenzetti, Napoleone, Conte, Aricò e Uncini, Fausto Melotti intitolava Realtà in equilibrio il testo pubblicato in un foglio- manifesto diffuso per l’occasione. Considerava i cinque artisti “anacoreti, lontani dalle tentazioni del mondo” che “vedono dalle finestre e conoscono fuori e anzitempo ciò che sarà necessario alla costruzione dell’edificio dell’arte” […], compagni nella ricerca, […] compagni in ciò che l’arte richiede, sacrificio e amore. […]. Non di mimi, si tratta di alcune pietre portanti dell’arte”.
Attraverso 58 sculture e 30 disegni datati 1957-2008, Appella ripercorre in una antologica le varie tappe del cammino dell’artista scandito da Terre, Cementarmati, Ferrocementi, Strutture spazio, Strutturespazio-ambienti, Mattoni, Terrecementi, Ombre, Interspazi, Dimore delle cose, Dimore e muri d’ombra, Spazi di ferro, Spazicementi e Tralicci, Muri di cemento, Architetture, Telai-Artifici.
Il curatore racconta: “Temi e ricerche perentoriamente messi di fronte, in un vis-à-vis tutt’altro che azzardato, anche nei ripensamenti del già fatto, per perseguire fino alle estreme conseguenze la fisicità dell’opera, per estrarre dalla materia (olii, terre, cementi, pigmenti su supporti tradizionali, lamiere, ferri, mattoni), con l’abituale procedimento mentale, come l’ape il nettare dai fiori, una inedita carica fantastica e quella idea progettuale a lungo accarezzata nella miriade di gesti e attitudini di mestieri praticati durante la guerra come una personale università del pensiero e della mano. Perché alla vita fisica della materia, cui corrisponde il farsi corpo dell’immagine, al suo ruvido rigore, che non respinge una sua esclusiva bellezza, si accompagna in Uncini una sorta di salda e intensa memoria spirituale portata a sorreggere, come in Brancusi, quanto di razionale e di irrazionale nutre il fronte del proprio lavoro. Scrive: “Mi piace pensare alla mia scultura come qualcosa che possiede due vite; l’una quella che io riesco a darle con i miei ‘criteri’ di estetica, di spazio e di poesia, l’altra, quella dovuta all’uso quotidiano, vero, concreto della cosa. Naturalmente ciò che mi interessa è caricare questi vuoti di umori, di momenti poetici, insomma di farne delle cavità dense di avventure esistenziali”.
Basta leggere i titoli: da una iniziale Terra che corrisponde a un normale paesaggio memore di De Staël subito riversato in Rothko, e da un letterario Il passo del gatto (1958), emblema dell’illusoria immagine della pittura che vuole sfuggire all’oggetto-quadro e scava nelle memorie del sottosuolo, rapidissimo è il passaggio da materie cromatiche primarie, sottilmente evocative, a un solo materiale, il cemento, che muove gesti e segni e li dota con il ferro alzando armature (Primo Cementarmato, 1958-1959), regolando masse pesantissime che, tra un alfabeto e un traliccio, una dimora e un epistylium, ordiscono una città solo apparentemente impossibile (Architetture n. 206, 2006), tanto occupò i sogni dei futuristi, di Gabo e di Tatlin, di Vantongerloo, di Max Bill e di Calder, di Marino di Teana e di Etienne-Martin, di Burri e di Consagra, di Milani e di Chillida, di Somaini e di Sanfilippo.
Come molti di questi che lo hanno preceduto, Uncini, soprattutto negli anni delle trasformazioni e degli ambigui simulacri di impossibili prospettive, altro non fa che analizzare gli strumenti a sua disposizione, appuntirli, in tutti i sensi, nel patrimonio culturale e nella quotidianità del suo operare, fissare, recandosi nello studio come un direttore d’orchestra in teatro per le prove, l’artigianalità della costruzione, una dinamica di attese consumate in spostamenti minimi capaci di tessere, nell’inversione dell’assetto del reale, nella fisicità concreta dell’opera, nel puro valore di superficie, l’oggi con il domani, quindi anche i primi con gli ultimi suoi lavori. Dove non hanno fatto breccia né l’Informale né la Pop Art, tantomeno ismi, correnti e nomi (l’arte povera, il minimalismo, Carl Andre, Robert Morris, Richard Serra, Joel Shapiro, Ron Bladen) che hanno attraversato la seconda metà del XX secolo stabilendo ramificazioni e parentele di linguaggi.
È evidente, allora, l’impossibilità di determinare un percorso che non abbia alla sua base quel rigore concettuale che ristabilisca in forma il luogo-spazio (Cementarmato, 1962 – Architetture n. 217, 2006) ed elimini, ogni volta, nonostante la materia si presenti così com’è, dura-fredda-precaria-accidentata, ed assuma, per coincidere con il contenuto, anche il titolo-guida dell’opera, la figura dell’analogia se non del simbolo o della metafora che, invece, Uncini impara subito a far convivere con la vitalità del pensiero della scultura e della sua nascita (Cementarmato, 1959-1960 – Architetture n. 193, 2005), con i problemi di procedimenti, identificazioni e orientamenti, di articolazione e statica, di equilibrio e composizione, di peso e stabilità, di tempo e durata.
Occorre considerare questo pensiero della scultura, o ordine creativo, sotteso all’impostazione dei manufatti “su una frontalità spaziale assolutamente innovativa” che utilizza, a partire dalle gabbie, ciò che Emilio Villa chiama ideologia strumentale per una disciplina strutturale che si distingua come segno di identità, motivo primo, in Uncini, del suo fare in costante evoluzione e del riscontro frontale messo in atto da Cemento lamiera (1959) a Artifici n. 5 (2008), che accertano tangenze e differenze con il minimalismo da Uncini contraddetto proprio con il rifiuto della serialità o del modulo e la persistente “umana” progettualità presente fin dal 1960. Scrive: “Io lavoro con il cemento e il ferro. Questi materiali li uso con proprietà, nel senso che non li camuffo, che non me ne servo per trarre degli effetti particolari, al contrario li adopero come si adoperano nei cantieri, per costruire le case, i ponti, le strade, per costruire tutte le cose di cui l’uomo ha bisogno. Alla base di tutto questo c’è la necessità di costruire, di organizzarsi, c’è quel principio creativo che è all’origine di ogni progresso umano, questo è quanto nei miei oggetti voglio esprimere”.
Questo principio, divenuto nel corso degli anni un pensiero dominante, acquisisce un ritmo di linguaggio che dal Cementarmato n. 10 (1961) si sedimenta nel Ferrocemento n. 14 (1963), dalla Parete interrotta (1971) si posiziona nelle Dimore (1982), dagli Spazi di ferro (1990) si colloca negli Spazicemento (1998), ovvero una immagine-oggetto che apprende il concetto di rarefazione per un criterio razionale che, in seguito, anima una struttura funzionale e dinamica a sua volta implosa ed esplosa in una energia che è calcolata organizzazione del lavoro, tesa a disegnare e a delimitare un proprio spazio pluridimensionale, con una fisionomia personale, estesa alla casa in cui abitare, allo studio in cui realizzare, ai mezzi con i quali procedere, agli stessi amici da frequentare con poetico candore.
In tutto ciò, la luce magica di Roma, che in alcuni momenti ha fatto pensare a sconfinamenti in atmosfere metafisiche evocative ed affabulanti, ha un ruolo significante, e non solo per il lavoro svolto sulle ombre, spostando l’attenzione dalla forma reale alla forma virtuale dell’oggetto. La sua presenza, definita da Uncini, come l’ombra, “concetto spaziale”, realtà artificiosa che muta la forma durante il suo crescere, è strettamente connessa al colore che nelle prime opere sviluppa il forte sentimento dell’antico, del paesaggio costruito dall’uomo, tipico degli affreschi di Giotto, Masaccio e Piero della Francesca, ovvero della civiltà della cultura occidentale al suo massimo splendore, e nelle ultime, schiacciando i volumi, raccoglie la lunga esperienza sulla necessità di non alterare la struttura della materia facendosene sua natura nell’incontro con la tecnica. Tanto da disegnare liberamente, con un ritrovato gusto dell’avventura e del non finito, accenni di architetture inquadrate in uno spazio a misura umana, strutture di relazione tra se stesso e la scena che ogni giorno gli si offriva dalle antica mura di Trevi”.
Accompagna la mostra un catalogo con l’introduzione della direttrice della Galleria Nazionale, Cristiana Collu, e con i contributi del curatore, Giuseppe Appella, di Bruno Corà e di Lara Conte.
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