La natura convalescente ....

La natura convalescente
di Andrea Cortellessa

 

«Non ho mai vissuto un autunno simile, e neppure avevo mai ritenuto possibile una cosa del genere sulla terra – un Claude Lorrain prolungato all’infinito, ogni giorno di una uguale indomabile perfezione». Così scrive Friedrich Nietzsche in Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, poco prima dell’ominosa crisi del 3 gennaio 1889 quando, col famigerato abbraccio al cavallo di Piazza Carignano, raggiunse il suo destino: ossia ciò che sarà sino alla morte, undici anni dopo, al picco dell’estate 1900.

Oggi si tende a pensare che la mente di Nietzsche sia rimasta vittima di un tumore cerebrale a lenta progressione (meningioma) oppure della cosiddetta sindrome CADASIL, una demenza ereditaria di matrice patrilineare. Lui stesso in effetti allude alla morte di suo padre, dopo un anno di «apatia cerebrale», all’età di trentasei anni (lui ne aveva quattro, e l’anno dopo dovette assistere anche alla morte di un fratellino di due): per cui, «parlando per enigmi, come mio padre io sono già morto, come mia madre vivo ancora e invecchio». Sin dall’inizio si visse, in altri termini, come postumo.

È lo stesso Nietzsche a istituire un nesso tra fisiologia e pensiero, cioè fra malattia e salute, spiegando in questi termini la «rivelazione» dell’incontro con Zarathustra: «bisogna in primo luogo aver chiaro il suo presupposto fisiologico: che è ciò che io chiamo la grande salute». In uno degli ultimi testi raccolti in Critica e clinica – prima del gesto col quale mise fine all’atrofia polmonare che gli rendeva la vita impossibile – scrisse Gilles Deleuze che «lo scrittore in quanto tale non è malato, ma piuttosto medico, medico di se stesso e del mondo»: è proprio in quanto «il mondo è l’insieme dei sintomi di una malattia che coincide con l’uomo» che «la letteratura appare allora come un’impresa di salute». Con la medesima ambivalenza che nel «caso Nietzsche»: «non che lo scrittore abbia necessariamente una salute vigorosa»; la sua è piuttosto «un’irresistibile salute precaria». Una condizione «il cui passaggio lo sfinisce, ma gli apre dei divenire che una buona salute dominante renderebbe impossibili».

È quello che sostiene lo stesso Nietzsche in quello che è forse, letterariamente, il suo capolavoro, Aurora. L’aforisma Della conoscenza di colui che soffre è la formulazione più compiuta – in termini modernamente secolarizzati – di quello che Pascal aveva definito «il buon uso delle malattie»: «colui che soffre profondamente vede dalla sua condizione, con una terribile freddezza, le cose al di fuori», e ne ricava «una atroce chiaroveggenza sulla propria natura». Al punto che «la più grande malattia degli uomini è nata dalla battaglia contro le loro malattie, e gli apparenti rimedi hanno generato a lungo andare qualcosa di peggio di quello che con essi doveva essere eliminato». Condizione ideale non è infatti per lui quella della salute vigorosa, come dirà Deleuze, bensì la salute precaria: quel riaccostarsi incerto alle cose del mondo che «andiamo osservando come trasmutati, dolcemente e ancor sempre stanchi. In questo stato non si può ascoltare della musica senza piangere».

Il filosofo – aveva scritto in Umano, troppo umano – deve maturare una «grande separazione» che si produce «improvvisa, come una scossa di terremoto»; e che Nietzsche equipara a «una malattia che può distruggere l’uomo». Sicché «la via per giungere fino a quell’enorme, straripante sicurezza e salute […] non può fare a meno della malattia stessa, come di un mezzo e amo di conoscenza». Fra l’una e l’altra, «lunghi anni di convalescenza»: per cui è «saggezza di vita, somministrarsi per lungo tempo la salute stessa solo a piccole dosi».

Nietzsche è onnipresente nei primi scritti di Giorgio de Chirico: quei cosiddetti Manoscritti Eluard e Paulhan, risalenti al 1913 circa, che sono il big bang della poetica “metafisica”. A Zarathustra ricollega la «rivelazione» della propria arte; ma soprattutto, aggiunge,

 

Un’opera d’arte realmente immortale non può nascere che per rivelazione. È stato forse Schopenhauer a definire e a spiegare meglio questo momento quando dice nei suoi Parerga e Paralipomena: «Per avere delle idee originali, straordinarie, forse anche immortali, basta isolarsi assolutamente dal mondo e dalle cose per qualche istante, finché gli oggetti e gli avvenimenti più ordinari ci appaiono completamente nuovi e sconosciuti; ciò rivela la loro vera essenza». […].

A questo proposito dirò come ebbi la rivelazione di un quadro che ho esposto quest’anno al Salon d’Automne e che si intitola: L’Enigma di un pomeriggio d’autunno.

In un chiaro pomeriggio d’autunno ero seduto su un banco in mezzo a piazza Santa Croce a Firenze. Certo non era la prima volta che vedevo quella piazza. Uscivo da una lunga e dolorosa malattia intestinale e mi trovavo in uno stato di morbida sensibilità. La natura intera mi sembrava convalescente fino al marmo degli edifici e delle fontane. […]

 

In questo passo celebre Maurizio Calvesi ha fatto notare l’importanza della citazione dai Parerga e paralipomena di Schopenhauer (altro suo riferimento filosofico-chiave). Ma forse non è stata sottolineata a sufficienza la matrice (auto)biografica dell’icona nicciana dell’uomo malato, che opera la sua grande separazione dal mondo degli uomini. Il superstiziosissimo de Chirico non poteva non notare quello che gli doveva apparire uno spettrale passaggio di consegne: la crisi che mette fuori gioco Nietzsche non si consuma forse nel 1888, cioè esattamente il suo anno di nascita? E non era morto dopo lunga malattia anche suo padre, l’ingegner Evaristo? Non aveva dovuto assistere, anche lui all’età di quattro anni, alla morte della sorellina Adelaide? «Il suo processo di identificazione arrivò a un punto tale», ha fatto notare Wieland Schmied, che «ebbe a momenti gli stessi sintomi accusati da Nietzsche – una estrema sensibilità ai cambiamenti di tempo, cefalee e disturbi gastrici di origine nervosa».

In ogni caso è così che disegna il proprio percorso simbolico, de Chirico, nel redigere il suo Ecce homo, le Memorie della mia vita. In cui racconta il passaggio simbolico da Firenze, dove ha la «rivelazione» dell’Enigma di un pomeriggio d’autunno («cercavo di esprimere quel forte e misterioso sentimento che avevo scoperto nei libri di Nietzsche: la malinconia delle belle giornate d’autunno, di pomeriggio, nelle città italiane. Era il preludio alle piazze d’Italia dipinte un po’ più tardi a Parigi e poi a Milano, a Firenze e a Roma») ma dove avverte i primi «forti disturbi intestinali», a Parigi, dove finalmente si rivela al mondo esponendo proprio quel quadro, fra gli altri, al Salon d’Automne del ’12. Tra le due c’è però una tappa decisiva in una terza città, quella in cui Nietzsche aveva intravisto la salvezza, prima di cadere nell’abisso:

 

Io mi sentivo molto male; era una torrida estate dell’anno 1911; era luglio; a Torino ci fermammo un paio di giorni per visitare l’esposizione che si era inaugurata allora. Ma col caldo e la fatica del viaggio il mio stato peggiorò. Si partì da Torino che stavo molto male e avevo forti dolori intestinali […] il cameriere entrando nella camera e vedendomi sul letto disse: «C’est la chaleur qui fait ça!»

 

È legata a Torino quella che nelle Memorie de Chirico chiama la «Stimmung» per eccellenza della Metafisica: quella del «pomeriggio d’autunno, quando il cielo è chiaro e le ombre sono più lunghe che d’estate, poiché il sole comincia a essere più basso». E a Torino Nietzsche aveva ricevuto il balsamo di un autunno sovrannaturale, davvero metafisico, che in Ecce homo aveva codificato nei termini enigmaticamente pittorici di «un Claude Lorrain prolungato all’infinito». Con ogni probabilità Nietzsche ricorda qui un passo dei Colloqui con Goethe di Eckermann, in cui dei quadri del Lorenese si dice che «possiedono il massimo grado di verità, senza avere tuttavia alcun briciolo di realtà». Sono parole che cita Michael Jakob per sottolinearne «l’effetto di sintesi», l’«assemblaggio di loci» (come una Firenze vista nella luce di Torino…). Ma la centralità di Lorrain nella tradizione paesaggistica deriva soprattutto dal suo abbandono del «modello basato sulla centralità della figura umana».

Anche de Chirico, infatti, vi si riferirà spesso nei suoi scritti. In un testo del 1919, Sull’arte metafisica, rivendica alla «nuova pittura metafisica italiana» una «seconda solitudine» che trova il suo presupposto nella «solitudine plastica» di «quadri di Böcklin, di Claude Lorrain, di Poussin abitati da umane figure, i quali malgrado ciò sono in stretta correlazione con il paesaggio dell’epoca terziaria. Assenza umana nell’uomo». L’epoca terziaria è quella della preistoria: il tempo di un’assenza umana nell’uomo, appunto. Ma se nella terra primordiale tale assenza è umana, cioè naturale, non altrettanto si può dire della terra di oggi, nei paesaggi urbani spopolati di un Claude Lorrain prolungato all’infinito. Per tentare di spiegarli si deve immaginare un qualche cataclisma, come quello che de Chirico ritrae in un poco noto componimento poetico del 1918, L’ora inquietante:

 

Tutte le case sono vuote
risucchiate dal cielo aspiratore.
Tutte le piazze deserte.
Tutti i piedistalli vedovi.
Le statue – emigrate in lunghe
carovane di pietra
verso porti lontani.
Strane iscrizioni sorgono a ogni quadrivio.
Avvertimenti funebri di non andar più oltre.

“Pericolo di morte”
Ma anche l’immortalità è morta
in quest’ora senza nome sui quadranti
del tempo umano.
Che sia rimasto io solo con
un resto di tepore vitale sulla
sommità del cranio?

Che sia rimasto io solo con un palpito
superstite nel cuore che non tace?
Torna beatitudine stanca dei miei anni andati!
Ciò che ho perduto non lo riavrò più mai.
Ma nella tua bella mano, o donna, tu tieni
il pegno sacro d’una eterna giovinezza.

 

Il misterioso fenomeno del cielo aspiratore produce uno scenario assai simile a quello “fiorentino” dell’Enigma di un pomeriggio d’autunno, nel quale resta traccia, però, del malessere “torinese” («C’est la chaleur qui fait ça!»): in quel resto di tepore vitale sulla sommità del cranio, in quel palpito superstite. La beatitudine stanca di cui parla de Chirico è precisamente il sentirsi trasmutati, dolcemente e ancor sempre stanchi di cui diceva il Nietzsche di Aurora. Solo questa è la condizione metafisica – aurorale davvero – che non si può più dire malattia, ma salute ancora non è: quella in cui la natura intera sembra convalescente.

La grande separazione dal mondo dei vivi – l’isolarsi assolutamente dal mondo e dalle cose di cui parlava Schopenhauer – rappresenta il passaggio ineludibile di una linea d’ombra fatale: il picco dell’estate come momento critico, il bivio d’Ercole che divide la strada della guarigione da quella della catastrofe. L’avatar Nietzsche, lui, non era riuscito a guadagnarsi la via della salvezza. Ma con l’infinita convalescenza delle sue Piazze d’Italia de Chirico ci dice che, dalla crudeltà senza nome di questo cielo aspiratore, è possibile salvarsi. E allora, quando quel momento alla fine verrà, davvero non si potrà ascoltare della musica senza piangere.

 

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