Roma città chiusa – Ep. 4

Piove il cielo sulla città
foto e testo di Anton Giulio Onofri

 

 

Vado al Colosseo per scattare qualche foto col cielo grigio, ma niente da fare: senza sole i ruderi sono spenti, addirittura tetri, e non è questo che cerco nei miei giri in questa Roma chiusa per virus. Mi affaccio sulle rovine del Ludus Magnus, e il contrasto con le architetture più e meno recenti affacciate sulla via che dall’inizio della clausura non è più il salotto notturno del popolo dei romani arcobaleno, mi suggerisce uno scatto dove involontariamente catturo, sulla terrazza in cima all’edificio più alto, l’unico essere vivente incluso nella foto, una signora che, ignara del mio incarico e del mio regolare permesso, mi lancia urla ostili: ‘Turista! Tornatene a casa tua!’… La foto l’ho fatta, è buona, perciò decido di cambiare aria e muovermi verso quartieri assai meno antichi del Foro, dove Roma è comunque e sempre Roma.

 

 

Eccomi a Testaccio, nella Piazza che una volta ospitava il mercato rionale ora spostato in zona Mattatoio. Al centro, dopo circa 80 anni, è stata risistemata nel 2015 la Fontana delle Anfore, ordinato cumulo di vasi dai corpi affusolati dove la luce, anche in assenza di sole, disegna orecchie d’ombra nell’incavo dei manici e dei colli, dentro una vasca modellata nelle forme composte e gentili degli anni ’20 del secolo scorso. Le scatto due foto: nella prima è al centro di una prospettiva speculare che comprende la facciata di un grande edificio tra le fughe delle vie laterali, due platani ‘storici’ e due piantumati dopo la recente riqualificazione della piazza; nell’altra foto, più accesa e colorata nonostante l’identico cielo biancolatte, è decentrata a sinistra, privilegiando la centratura di altri due giovani platani in quinta che invitano lo sguardo a entrare in piazza, aggirare la fontana fino ad abbracciare il sipario dei grandi alberi sul fondale, semichiuso su un altro edificio colorato di un giallo appena più acceso. Non so quale delle due preferisco.

 

 

Domenica 19 aprile. Domenica, come nel cartello che vieta la sosta dalle tre del mattino alle otto di sera, ‘eccetto veicoli adibiti alle operazioni di mercato’. La luce piatta non lascia indovinare l’ora esatta, perciò vi dico io che al momento dello scatto saranno state quasi le due. È alle due che qui al mercato si fanno gli affari migliori. Quello che alle nove della mattina costava dieci, alle due te lo puoi portare via per cinque, per quattro, per tre… Ma in piena stagione di Coronavirus, Via Ettore Rolli ha lo stesso aspetto che ha per tutto il resto della settimana da almeno quaranta giorni, cioè da quando è scattata la clausura. Non passa nessuno, né a piedi né in auto, o in bicicletta, come da queste parti non succede nemmeno a notte fonda. Chi di solito viene fin qui solo per gli acquisti domenicali, nemmeno riconoscerebbe che in queste strade la domenica c’è Portaportese.

 

 

Mentre fotografo Ponte Marconi, mi squilla il cellulare: sono i miei amici Franco e Jenny che abitano all’ultimo piano di un palazzo al termine di Viale Marconi. ‘Sei tu che stai fotografando il ponte? Gìrati, che ci salutiamo!’. Mi volto, alzo gli occhi fino lassù in cima e vedo i miei amici che si sbracciano con teatrale euforia: anche loro, da una quarantina di giorni, non avranno più visto nessuno. La situazione ha qualcosa di struggente, ma riusciamo a non farci prendere la mano, anzi Franco, al telefono, rilancia: ‘Ti faccio una proposta. Nonostante la giornata opaca, la vista da quassù è incredibile. L’incrocio, il ponte, lo skyline dell’Eur con il Colosseo Quadrato, la chiesa di San Pietro e Paolo, fino alle torri di Euroma2… Il lockdown ci impone di evitarci, perciò ora io salgo sulla terrazza condominiale, ti apro la porta, torno a casa, tu mi citofoni, sali con l’ascensore in terrazza, fai la foto e te ne vai. Poi io vado a richiudere tutto…’ Non me lo sono fatto ripetere due volte. Grazie, Franco e Jenny!

 

 

Il pomeriggio si trascina stanco sotto un cielo sempre più cinerino. Oggi non sono i colori, ma i volumi degli edifici a stuzzicarmi l’occhio, le architetture di un lungo Novecento che dal Liberty e dal Barocchetto dell’Alberone si rimpolpa e si rassoda nella massiccia muscolatura dell’edilizia anni ’30 di Piazza Armenia, tra San Giovanni e Via Cristoforo Colombo, là dove dopo l’esito fallimentare del colpo al Banco dei Pegni la sgangherata combriccola di I soliti ignoti si scioglie e si saluta nel finale del film di Mario Monicelli. Alla Stazione Termini, nessuno parte più, né arriva, come in un set cinematografico in dismissione, disertato da tutte le comparse fino a ieri impiegate per le scene di massa. Cala la sera, e con lei la luce, gradualmente diluita nel nero asfalto della Tangenziale. Buonanotte, Roma.