Roma città chiusa Fase 2 – Ep. 2 ....

La bellezza è solo degli occhi di chi guarda
foto e testo di Anton Giulio Onofri

 

I primi abitanti che incontro arrivato a Corviale (con difficoltà, perché sul navigatore bisognerebbe indicare ‘Nuovo Corviale’, cioè il famoso ‘Serpentone’, altrimenti si rischia di vagare a vuoto) sono delle pecore smagrite e annoiate, al di là di un reticolato dove brucano paglia e bevono da una vasca da bagno riutilizzata come fontanile. Il pascolo lambisce il capolinea degli autobus e il parcheggio dove lascio l’auto, ad una delle due estremità dei 986 metri dell’osso lanciato in aria dallo scimmione di Kubrick, che invece di volare in cielo e, grazie ai prodigi del cinema, diventare un’astronave, è ricaduto in Terra, assestandosi nei pressi di Roma, su un rilievo del suburbio Gianicolense, sotto forma di gigantesca unità abitativa con ambizioni comunitarie progettata secondo i criteri di un’architettura volenterosa ma ingenua e ideologizzata, addirittura, come disse qualcuno, fuori tempo massimo in quegli iniziali e già postmoderni anni ‘80, indifferenti agli interessi collettivi e orientati ormai a soddisfare i bisogni privati dell’individuo.

 

 

Ho scelto Corviale come seconda tappa di questa mia breve ricognizione ai margini della Capitale durante la Fase 2 dell’emergenza Coronavirus prima di tutto perché non ci ero mai venuto. Poi, perché insieme alla curiosità di osservare i comportamenti dei suoi abitanti in questo periodo di obblighi e limitazioni, ero curioso di verificare di persona quanto fossero autentiche le leggende e le dicerie sulla sua spaventosa bruttezza, compresa quella che il suo ideatore, l’architetto e urbanista Mario Fiorentino, si suicidò per aver creato ‘un mostro’. Il primo contatto visivo non è dei migliori. Ai piedi del lato orientale, in ombra da mezzogiorno, cassonetti stracolmi di immondizia e circondati di altri materiali di scarto introducono all’esagerata imponenza dell’edificio. Dettaglio allarmante, un divieto di transito trascolorato e virato in un incongruo negativo bianco e nero. Un segnale in codice?

 

 

Non posso ancora sapere che le due giovani col bimbo nel passeggino incrociate al primo ingresso nel caseggiato (rigorosamente senza mascherina) saranno tra i pochissimi esseri umani che incontrerò questo pomeriggio dedicato alla visita di un luogo abitato da tanta gente (4.500 persone, pare) ma che ha tutta l’aria di giacere abbandonato come un bastimento o un sommergibile sui fondali dell’oceano. Mi avventuro tra gallerie e corridoi deserti, pontili coperti, dove l’occhio scruta il fondo delle prospettive, a volte senza intuirne la fine, e mi affaccio sul fronte occidentale del Serpentone, ora in piena luce. E immagino i destini radicalmente differenziati e antiteticamente scanditi tra estate e inverno di chi abita sul lato est, che ha il sole fino all’ora di pranzo, e di chi invece gode fino al tramonto della benedizione della luce. Ad est, verso sera, specialmente ora che è in arrivo la stagione calda, c’è chi verrà a godersi il fresco e l’ombra seduto su una fila allestita di seggiole, al momento vuote perché ci batte ancora il sole.

 

 

Alla fermata dell’autobus scendono tre donne e un uomo, ciascuno è solo e va in direzioni diverse. Indossano tutti la mascherina, ma una delle donne la porta abbassata sotto il mento. Tornano dalla spesa e hanno l’aria di non conoscersi. L’uomo si accomoda su una panchina e inizia una conversazione al cellulare che durerà mezz’ora buona: non riuscirò a capire se sta riferendo all’interlocutore un drammatico colloquio con il proprio medico curante o con qualcuno di tutt’altra specie, tipo un usuraio. Non resto certo ad origliare, né lo considero un soggetto interessante per le mie foto. Rientro da uno degli ingressi verso la metà esatta del chilometro di cemento e mi confermo che a Corviale non solo non troverò nessuno: non troverò niente. Su un terrazzamento piastrellato a marmette fotografo, ma così, tanto per non tornare a mani vuote, tre panche rose dall’incuria, il palcoscenico circolare ai piedi delle gradinate di un teatro alla greca, anch’esso fuori uso da un bel po’, e il disordinato assembramento di volumi sgraziati e segati col filo come si fa col formaggio, striati di fitte finestre con le saracinesche quasi tutte abbassate. È il trionfo della noia tra quadrati, rettangoli e angoli retti che le inutili geometrie decorative in diagonale sui frontoni dei parapetti non riescono a spezzare. Dipinta con il normografo, una scritta su un architrave mi invita a scendere verso una palestra di pugilato, chiusa per decreto pure quella.

 

 

In un agglomerato più recente di edifici a due piani esterni al Serpentone, di fronte all’ingresso centrale, ritrovo un po’ di movimento: c’è il Commissariato di Polizia e qualche altro ufficio di pubblica utilità. Ma oltre a un paio di agenti, avverto la presenza di qualcun altro soltanto dalle voci che provengono dalle finestre aperte. Per attraversare via Marino Mazzacurati utilizzo un ponte di ferro dipinto dello stesso blu dei mattoncini Lego, notando appena che sulla pedana, protetto da una tettoia dello stesso colore è steso l’affresco a tempera di un albero azzurro dal tronco robusto e tortile che butta dai rami fiori e foglie giallo oro. Al termine del ponte coperto c’è una scala da scendere, ai piedi della quale mi volto e finalmente trovo qualcosa che riesce a regalarmi una sensazione estetica gradevole: lungo i gradini della scala, in trompe-l’oeil, l’artista ha dipinto lo snodarsi di un serpente (è chiara l’allusione al ‘Serpentone’) che minaccia un ragazzino dalle fattezze orientali, armato di fiocina e occhialini da sub. A colpirmi non è tanto la qualità o meno dell’opera: sotto la propria firma, appósta sopra l’ingresso del ponte blu, lo spagnolo SFHIR ha riportato erroneamente il detto celebre ‘La Bellezza è solo degli occhi di chi guarda’. In realtà si dice ‘negli occhi’. Ma quel ‘degli occhi’ ci dimostra che lì a Corviale la bellezza non c’è. Non c’è nemmeno negli occhi di chi guarda. Perché chi guarda può avere senz’altro degli occhi bellissimi, ma la bellezza si ferma lì, resta solo dei suoi occhi.

 

 

Attirano la mia attenzione le due voci di un’anziana signora e di un bambino, probabilmente una nonna e il suo nipotino, anche loro in visita a Corviale (chissà come mai, mi domando). Dal punto in cui mi trovo, sopraelevato rispetto a via Mazzacurati, c’è un ampio sentiero che attraverso un campo rigoglioso di fiori e di piante percorre in parallelo tutta la lunghezza del Serpentone e si dirige verso la chiesa di San Paolo della Croce (vedo infatti spuntare in fondo, sulla destra, una bella croce stilizzata). Grazie alla sopraelevazione, si riesce a percepire le dimensioni delle ‘stecche’ dell’abitato e a vedere per intero il chilometro di cemento, dall’inizio alla fine. ‘Riesci a capire quanto è lungo?’ chiede la nonna al bambino. Lei indossa una casacca a fiori e dei pantaloni color cachi; il suo italiano non ha niente a che fare con l’idioma gergale che fiorisce da queste parti, e insieme a quello altrettanto educato del nipote mi conferma la loro estraneità a questi luoghi. Hanno entrambi un’aria così giuliva e stralunata da apparirmi all’improvviso come creature di un’altra dimensione spazio-temporale (il ricordo vola subito a me e mio nonno a passeggio sugli argini dell’Aniene verso la fine degli anni ’60). Si allontanano in fretta, è difficile riuscire a metterli a fuoco con il telemetro. Scatto la foto, e mi affretto anche io verso la chiesa, ma quando arrivo, la trovo chiusa. La nonna e il bambino, dissolti nel nulla.

 

 

Prima di tornare al parcheggio voglio ancora scattare un paio di foto su ciascuno dei due lati, cercando di rintracciarvi qualche riferimento al motivo per cui sono venuto fin qui: il virus con il quale questa Fase 2 dovrebbe insegnarci a convivere. E mi accorgo che da quando sono arrivato, l’assenza di persone vive, salvo un paio di tramvieri con le loro sigarette al capolinea, senza mascherina, tre o quattro anziani, senza mascherina, seduti, ora che il sole si è abbassato sul lato ovest, su quelle seggiole che avevo fotografato vuote, e un manipolo di forsennati ragazzini in bicicletta, senza mascherina, l’assenza di qualcosa non dico di bello ma almeno di grazioso su cui appoggiare volentieri lo sguardo e l’obbiettivo della mia macchina fotografica, mi ha fatto dimenticare, per la prima volta da un paio di mesi, la pandemia, la preoccupazione del contagio, il dolore delle tante morti e delle tristi modalità che le hanno accompagnate in solitaria verso la fine. Se ero venuto a Corviale a cercare i segni e i riti sociali del virus, mascherine, distanza di sicurezza, flashmob, cura e preoccupazione per sé e per i propri cari, non potevo trovarci niente. Qui il vero virus è l’assenza di ogni bellezza, l’impossibilità che possa brillare anche in fulminei brandelli di luce. Le bandierine italiane, altrove festose, si spengono qui esposte ad estinguersi su pareti visibili da distanze troppo vaste per poterne indovinare i tre colori. Nemmeno a una rosa gigante stampigliata su un telo da spiaggia steso ad asciugare riesce lo spettacolo della piena fioritura, tanto è battuta dal vento forte che la spiegazza. Il segreto di Corviale, che sopravvive in barba alla paura della virus, se lo porta con sé una signora col cane che, senza mascherina, attraversa il portone d’ingresso del civico 5 nell’enorme palazzo-serpente che pare inghiottirla.