Nel tempo senza tempo

Nel tempo senza tempo
di Franco Rella

 

C’è un tempo realmente out of joint, un tempo che è, paradossalmente, fuori dal tempo. Lo ha teorizzato Platone in uno dei suoi dialoghi più vertiginosi, il Parmenide: “La natura dell’istante è qualcosa di assurdo (atopos), che giace tra la quiete e il moto, al di fuori di ogni tempo”. Molti secoli dopo questa idea del tempo al di fuori del tempo assale Nietzsche, nel 1881 a Sils-Maria, come una rivelazione sconvolgente. È la scoperta dell’eterno ritorno che sta dentro il grande attimo, nel momento sospeso tra il prima e il dopo, in cui si deve pronunciare il sì alla vita. Allo stesso modo anche  De Chirico, leggendo Ecce homo di Nietzche, è stato assalito da ”l’enigma della rivelazione che viene d’improvviso”. Infatti, egli scrive, “una rivelazione può nascere d’improvviso, quando meno ce l’aspettavamo, e può essere provocata dalla visione di qualcosa come un edificio, una strada, un giardino, una piazza, ecc. Nel primo caso appartiene ad un genere di sensazioni strane che io ho osservato in un solo uomo: Nietzsche”.

 


Giorgio de Chirico, Piazza d’Italia con statua, 1937
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea

 

De Chirico fa un passo in più. Capisce che in realtà l’assenza di tempo è anche assenza di luogo come è implicito nel termine platonico atopos, letteralmente “senza luogo”. La piazza è il luogo di atopia, non solo del tempo ma anche dello spazio assente. Qui le immagini e le ombre sono immote, qui dove irrompe l’epifania del tempo arrestato. Il fumo dei treni o delle ciminiere è anch’esso sospeso. Forse prima o poi vedremo, al centro della piazza, la grande Kore, Arianna, che è l’enigma degli enigmi. Che è, scrive Nietzsche, non solo la “regina del labirinto”, ma il labirinto stesso: “Oh Arianna, tu stessa sei il labirinto: da te non si esce più fuori”. Queste sono, scrive De Chirico, “una folla di cose strane, incognite, solitarie che possono essere tradotte in pittura”. Penso che la pittura di De Chirico sia una pittura letteraria, una pittura di traduzione, e non soltanto delle “cose strane”, ma anche e soprattutto delle grandi figure nietzscheane. Tutti dipinti tra il 1910 e il 1913 sono, a mio giudizio, una traduzione pittorica delle figure filosofico-poetiche di Nietzsche.

 

 


Giorgio de Chirico, Presente e passato, 1936
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea

 

Le grandi piazze, queste grandi figure, tornano negli anni Trenta e tornano ancora negli anni Cinquanta. De Chirico ha sentito dentro di sé il “nuovo canto” di Nietzsche, qualcosa che ci mette di fronte a un mondo mutato, al “grande meriggio autunnale – le ombre lunghe, la luce chiara, il cielo terso”. È lo stesso meriggio in cui “Zarathustra è arrivato”. “Il grande cantore (…) che parla dell’eterno ritorno, il cui canto ha il suono dell’eternità (…). Solo con Nietzsche si può dire che è iniziata una vera vita”. È questo che ci fa pensare che le piazze degli anni Trenta non siano una replica, ma un’esperienza segreta che De Chirico fa dell’eterno ritorno. Con Nietzsche De Chirico sa di aver esplorato gli enigmi del mondo, ma l’enigme reste toujours. La ricerca non è finita, non avrà mai fine. Quando diciamo di sì alle cose che sono nel grande attimo, diciamo di sì al loro divenire, al loro mutare, ai nuovi enigmi che esse continuano ad accumulare dentro di sé, celati nel segreto di una piazza deserta.