Le “Piazze d’Italia” e “Gli archeologi”

Le Piazze d’Italia e Gli archeologi
di Fabio Benzi

 

“[…] il percorso dechirichiano fu estremamente vario, pieno di scarti e di ribellioni, devoto principalmente alla somma libertà della sua ricerca artistica. La testarda libertà di ispirazione fu un lusso che in realtà egli pagò caro, con l’ostilità dei vecchi compagni di strada che si sentivano traditi dalla sua sprezzante capacità di ricerca. Una ricerca che al di là delle apparenze è sempre stata di modernità assoluta, anche quando egli sembra ispirarsi al passato. La citazione del classico, dell’antico, saldamente presente anche nella Metafisica, appare poi sempre più polemicamente rivolta contro avanguardie che lui stesso aveva contribuito a creare [il Surrealismo], e che giudicava ormai datate, sorpassate. Il succo amaro della polemica conferisce inoltre ad ogni sua azione il crisma nodale, semantico dell’avanguardia. Così, con sprezzo geniale, mostrava che la modernità è un modo di essere, non una formula immobile o un mero traguardo stilistico raggiunto; che nella relatività assoluta del mondo, ritornare al passato può essere più moderno e avanguardistico che perseguire stancamente strade già esaurite. L’invenzione della pittura Metafisica guardava a un tempo ancestrale, di primordio umano; era uno scandaglio lanciato prima del tempo storico: dunque, in qualche modo, fuori dal tempo. Giorgio de Chirico trovò il modo, attraverso la suggestione della filosofia nietzschiana dell’eterno ritorno, di esprimere il suo genio come se fosse fuori dal tempo, pur guardando con profondo interesse e curiosità, quando non con polemica, ai fatti del proprio tempo. Un equilibrismo che produsse una delle più moderne e inquietanti entità artistiche del Novecento”

Fabio Benzi, Giorgio de Chirico. La Vita e l’Opera, La nave di Teseo, Milano 2019, p. 22

 

Le Piazze d’Italia

“L’arte di questo giovane pittore è un’arte interiore e cerebrale che non ha alcun rapporto con quella dei pittori che si sono rivelati in questi ultimi anni. Non viene né da Matisse né da Picasso; non viene dagli impressionisti. Questa originalità è piuttosto nuova, per cui essa merita di essere segnalata. Le sensazioni acutissime e modernissime di de Chirico prendono normalmente una forma architettonica. Sono stazioni ornate da un orologio, torri, statue, grandi piazze deserte; all’orizzonte passano treni ferroviari”

Apollinaire, La vie artistique, in «L’Intransigeant», 9 ottobre 1913
su suggerimento di Fabio Benzi

 

“L’evoluzione del linguaggio e dello spazio dechirichiano […] è perfettamente leggibile dalla serie delle Piazze d’Italia: quelle del 1910-11 sono ancora composte con un sistema prospettico tradizionale, fondamentalmente frontale, ma già sotterraneamente forzato da un punto di vista laterale; le aperture architettoniche, le arcate, pur apparendo a prima vista sottoposte a una prospettiva centrale, hanno il loro punto di fuga in una zona marcatamente laterale, creando un sottile squilibrio, una discrasia nella percezione, che attribuisce alle composizioni il senso di allarme e di estraneità rispetto a una visione tradizionale. De Chirico già a quell’epoca aveva evidentemente riflettuto su come, al di là delle immagini e delle iconografie, suggerire il senso di un mondo inquietante, in cui la superficie delle cose apparentemente conosciute, perfino velate dalla rassicurante radice del classicismo, potesse suggerire un mistero indecifrabile. [Successivamente] de Chirico porta ancora più avanti, con maggiore parossismo, questo espediente tecnico, inventando prospettive sempre più spericolate e precipiti, rendendo sempre più evidente e spiazzante la deflagrazione del sistema prospettico, che per sua natura dovrebbe rendere plausibile la rappresentazione del mondo, e che invece, col suo uso apertamente incoerente e discrasico, lo rende sempre più evidentemente irreale, vicino alle immagini di un sogno, rivolte a far emergere dall’interno della psiche nodi associativi che suggeriscano in maniera progressivamente più esplicita l’equivalente dello spaesamento visionario, della “rivelazione” nietzschiana e schopenhaueriana”

Fabio Benzi, Giorgio de Chirico. La Vita e l’Opera, La nave di Teseo, Milano 2019, pp. 121-134

 


Giorgio de Chirico, Gli archeoligi, 1927
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea

 

Gli Archeologi

“Gli “archeologi” sono forse il tema di maggior continuità, cui de Chirico apporta instancabilmente aggiornamenti iconografici e formali: “È un’idea che mi è venuta guardando certi personaggi delle sculture gotiche che ci sono sulle cattedrali e che quando sono seduti hanno l’aria molto maestosa perché hanno il tronco grande e le gambe piccole, e poiché non si alzano mai si ha sempre l’impressione che siano molto maestosi. È da lì che mi è venuta l’idea di fare questi personaggi con la parte superiore del corpo molto sviluppata e le gambe piccole… perché ciò conferisce una sorta di grandezza ai personaggi stessi”. Se questa lettura può apparire come una parziale semplificazione, poiché i “manichini archeologi” nascevano anche e soprattutto dalla temperie metafisica, (dai manichini delle Muse inquietanti, ad esempio), quella delle statue medievali è certamente un’idea che si innestò nel corso dell’elaborazione in senso più classicista del tema, rifondandone il significato di creature più umanizzate, figlie di Mnemosyne, nelle quali si inquadrano e incistano emozioni-concrezioni-ricordi autobiografici. Gli amalgami di ricordi, rovine, elementi archeologici che emergono dai loro busti si isolano talvolta in composizioni araldiche, trofei autonomi che campeggiano al centro della composizione”

Fabio Benzi, Giorgio de Chirico. La Vita e l’Opera, La nave di Teseo, Milano 2019, pp. 326-329