Interferenza

intervista a Corrado Sassi

 

Corrado Sassi, Natale di Roma, 2004

 

L’incontro ravvicinato con un’opera è capace di mettere in luce attitudini, posture e atteggiamenti che sfuggono alla codifica del linguaggio, e per questo, quando sono catturati, risultano ancora più immediati.

Questa relazione non è solo una postura del corpo, ma agisce sul taglio dello sguardo che rivolgiamo all’altro e sul modo in cui elaboriamo storie e racconti che dall’altro provengono.

Quando siamo immersi nell’incantesimo dell’immagine e ci crediamo, un’interferenza può mettere a nudo il trucco e rimettere tutto in discussione.

 

La ricerca di Corrado Sassi, anche nei lavori che utilizzano un altro medium, ha alla base un meccanismo fotografico. In Natale di Roma (2004) i rapporti tra sfondo e primo piano, tra narrazione storica e istante pop, sono messi in discussione da uno schermo visivo che interferisce sia all’interno tra soggetto e sfondo, sia all’esterno dell’opera, tra questa e lo spettatore. Come funzionano i tuoi interventi sulle immagini fotografiche?

In tutti i miei lavori c’è un’ossessione inconscia con il doppio e con l’idea di due entità che si uniscono. Spesso riconosco questo tratto solo dopo che l’opera è compiuta, e nel rintracciarlo riesco a leggerci dei legami con i miei ricordi, la mia memoria e le mie esperienze vissute.

Natale di Roma è un lavoro importante per me perché è il primo di una serie di arazzi che ho realizzato negli anni, ritornando più volte su quest’idea di pattern regolari che si sovrappongono e si uniscono a delle immagini.

Da ragazzo per un anno ho lasciato la scuola e ho lavorato per un periodo con mio padre che commerciava tessuti e lo aiutavo a realizzare i campionari delle stoffe, mettendole insieme in gradazione di colori.

Nel 2004, quando mi hanno chiesto di realizzare quest’opera, mi è venuto spontaneo pensare di lavorare con le lane da ricamo, riprendendo in qualche modo questa esperienza passata. L’idea è che un colore si fonda con il suo opposto, passando attraverso una sequenza armonica di colori intermedi, in questo caso dal rosso della roccia all’azzurro del cielo.

La griglia e l’immagine si uniscono e creano un’immagine nuova.

 

Molti dei tuoi lavori insistono sul rapporto tra vedere ed essere visto e sui riflessi che si instaurano tra un’opera e il suo pubblico. Come si declina in questi lavori il concetto di distanza e di vicinanza? E come ti percepisci in questo scambio di ruoli?

Prima degli arazzi, ho lavorato molto a fotografie di grande formato – gigantografie di un metro e mezzo per due metri – in cui un’unica immagine è divisa in due parti separate da una distanza di qualche centimetro.

Questa condizione (dovuta in parte al caso e a limitazioni di stampa) mi ha riportato a ragionare sull’idea di separazione e di unione: inconsciamente ho creato delle immagini staccate, che si riuniscono nello sguardo di chi le osserva, come se fossero state separate alla nascita e poi riunite nell’atto di guardarle. E questa circostanza, ho riflettuto poi, richiama un’esperienza della mia vita, la perdita di un fratello gemello morto alla nascita.

Diversi anni dopo, (in seguito anche agli arazzi) ho realizzato altre opere in cui a una foto stampata su alluminio ne sovrappongo una stampata in trasparenza su seta sintetica. Le due fotografie, scattate nel raggio di un kilometro e poco significanti se prese singolarmente, assumono il loro valore solo quando vengono sovrapposte, separate da pochi centimetri l’una dall’altra. Ancora una volta, è centrale l’idea di due entità che ritrovano – o trovano per la prima volta – una propria unità.

 

Qual è il ruolo dell’interferenza visiva nella tua ricerca? Sovverte o cerca di fare pace con l’immagine? 

Più che un’interferenza, nei lavori di cui ho parlato, vedo il mio intervento sull’immagine come una vera e propria forma di unione. In Natale di Roma, il luogo della fondazione della città è raffigurato come una scena arcadica, mentre il reticolo del ricamo richiama direttamente la struttura del castrum romano. Il reticolo dell’accampamento si innesta sulla natura e in questo si segna il momento in cui l’azione dell’uomo crea uno spazio vivo e abitabile.

 

È cambiato il tuo sguardo rispetto alla partica artistica in questo ultimo periodo?

A distanza ravvicinata è stata la prima mostra che ho visitato dopo la quarantena e mi ha colpito per un senso di spontaneità che mi ha trasmesso. Mi ha fatto pensare al ruolo terapeutico che rimane ancora una possibilità per l’arte. Riflettendo sulla distanza, ho pensato al rapporto tra medico e paziente, in cui l’incontro fisico assottiglia la distanza ma non la elimina mai del tutto. Inoltre, nel momento in cui il medico si avvicina al paziente, si crea un rapporto di intimità molto forte, perché lui conosce come sei fatto dentro. Credo che lo stesso accada con l’opera d’arte: è necessario che accada un incontro fisico, ci si deve entrare a contatto ravvicinato, certo senza mai poterci diventare un tutt’uno. E come il medico, così l’artista entra in intimità con l’osservatore – pur non conoscendo com’è fatto dentro – mandando un messaggio di introspezione, che alla fine è una cura per sé stesso e, forse, può curare anche qualcun altro, farlo sentire meno solo.

 

 

Cinque artisti in mostra, Paolo Meoni (Prato, 1967), Luisa Lambri (Como, 1969), Daniela De Lorenzo (Firenze, 1959), Stefano Arienti (Mantova, 1961), Corrado Sassi (Roma, 1965) approfondiscono in brevi interviste alcuni temi centrali di A distanza ravvicinata: il rapporto con lo spazio, l’abitare, l’intimità, lo sguardo che rivolgiamo all’altro, nelle sue diverse forme.

Paolo Meoni, Unità residenziale di osservazione, 2009, 5’41”
Luisa Lambri, Senza titolo, 1996
Daniela De Lorenzo, Escamotage, 2010
Corrado Sassi, Natale di Roma, 2004
Stefano Arienti, Senza titolo (Ritratto di Federica Cimatti), 1996​

Interviste di Francesca Palmieri