Idea dell’intercultura per vedere l’altro e nell’oltre

Idea dell’intercultura
per vedere l’altro e nell’oltre

di Antonello Tolve

Tra i temi che alimentano il nuovo percorso messo in campo da Paco Cao con i suoi Innesti romani, quello dell’interculturalità («non c’è cultura senza intercultura» ha apostrofato Jean-Lup Amselle nel 1990)[1] apre a problematiche, oggi sempre più complesse e compresse, che legano insieme i grovigli dell’ospitalità e dell’alterità, della provenienza e dell’appartenenza, dell’identità e della traspropriazione, del vicino e del lontano, del rifiuto e dell’accettazione, dell’estensione e della concentrazione, dell’inclusione e dell’espulsione, del proprio e del prossimo.

Muovendo dall’idea di creare uno smottamento e un accavallamento tra i piani del botanico e del biologico (bios è il termine che esprime la vita di un singolo o di un gruppo) Cao delinea un percorso esperienziale dove ogni singolo intervento è urgente metafora di partecipazione, di necessario (intenso) meticciato culturale, di planetario flusso migratorio che ridefinisce la sfera della συνουσία (sunousia), dello stare insieme[2].

Ad aprire la riflessione affrontata dall’artista è la favola poetica della fondazione di Roma e, nello specifico, del ruolo giocato nella leggenda dal ficus ruminalis che secondo Livio o anche Ovidio – «c’era un albero e ne restano le vestigia: era quel fico che ora si chiama Ruminale (Rumina) e che prima era detto Romulare (Romula)»[3] – ha accolto tra le sue nodose radici i figli di Marte e Rea Silvia (giovane vestale di Alba Longa): Romolo e Remo furono infatti abbandonati in una pozza del Tevere straripato «nel punto in cui oggi si trova il fico Ruminale (ficus Ruminalis), un tempo detto, a quanto si racconta, Romulare (Romularem)»[4].

Individuato da Paco Cao come l’albero sacro per eccellenza e dunque come il simbolo di Roma la materna, la prosperosa, la generosa, la potente – vale la pena ricordare che secondo alcuni etimologisti la radice di ruminale proverrebbe dal latino ruma (mammella), origine anche dei nomi Romolo, Remo, Roma – il fico diventa, assieme alla Malvasia Puntinata (la vite e l’ulivo sono le altri due arbusti sacri nel mondo romano), pianta portainnesto che, quasi a richiamare la teoria dell’interferenza di Mircea Eliade, è usata dall’artista come incrocio vegetale (e culturale) con il Fetasca Neagra rumeno, il Ficus benjamina filippino e il Ficus elástica bengalese per indicare le tre maggiori comunità d’immigrati nel territorio romano, ma anche per riflettere sullo sviluppo dei modelli insediativi, per accendere una luce sul lungo cammino partecipativo nella nuova antropogeografia dell’urbe, per riguardare il farsi persona nel trapianto (nel reimpianto) e per ridefinire l’altro nell’oltre: in una oltrità che è, con Roberto Esposito, terza persona pronominale – un vero assorbimento plurale – in cui si conquista la sfera del neutro[5], del ne-uter latino dove vige la regola del concatenamento, della rimodulazione culturale, dell’alterazione, della metamorfosi e della contaminazione. Il difficile intreccio del dentro e del fuori proposto da Paco Cao in questo brillante progetto che è prima di tutto un processo conoscitivo diviso in cinque tappe, si stabilisce, dunque, sul duplice piano dell’arboricoltura e della geografia antropica. Se infatti il ficus e la vite sono oggetto d’accoglienza, d’aderenza, di collegamento, di fusione con tre diverse specie vegetali provenienti da altri luoghi e altri spazi, il territorio romano rappresenta a sua volta – in stretto rapporto di partecipazione con l’innesto arboreo – un campo di fertile connessione tra culture (Fernando Ortiz Fernández parlerebbe di transculturación)[6], un pontefice laico che assorbe al suo interno tutte le meraviglie della diversità, dando vita a un nuovo (ideografico) assetto della communitas.

Contrassegnati come riquadri simbolici e come ambienti fortemente connessi alle tematiche affrontate da Innesto, è tra l’altro una équipe specializzata a eseguire gli innesti delle specie straniere su quelle locali e a seguire analiticamente il processo botanico, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, il Parco Archeologico di Ostia Antica, il giardino storico di Palazzo Barberini (Gallerie Nazionali di Arte Antica), i Musei Capitolini dove l’attenzione è ricaduta sul Ritrovamento di Romolo e Remo (1615-1616) di Peter Paul Rubens, il giardino del Museo Pietro Canonica in Villa Borghese, l’Università La Sapienza, l’Osservatorio sul razzismo e le diversità M.G. Favara dell’Università Roma Tre e l’Università degli Studi di Udine sono oggi teatro critico di un discorso alla cui base è possibile scorgere tutta la forza dell’affermazione (dell’autoaffermazione), dello stato selvaggio e della domesticazione, della sorveglianza e dello sfuggire a ogni controllo con strategie insediative dove radicamento e spaesamento portano all’evanescenza del confine, alla vicinanza del lontano, alla porosität[7] del pluriurbano, così come individuata da Ernst Bloch, dove si configura un bestiario umano che si rigenera costantemente per disegnarsi in un nuovo sincronismo linguistico, in una nuova dimensione percettiva che procede a una evoluzione vitale del tessuto cittadino, rendendolo flessibile e adattabile.

Nell’ambito del complesso progetto plasmato da Cao, anche l’intervista gioca un ruolo centrale poiché rappresenta per l’artista un ulteriore livello di congiunzione, una porta tesa a intersecare punti di vista differenti su temi e problematiche. Alessandro d’Alessio (Direttore di Ostia Antica Costantino D’Orazio (referente per il Museo Pietro Canonica), Federica Maria Papi (funzionario curatore dei Musei Capitolini) e Francesca Cappelletti (Direttrice della Galleria Borghese) intervistata sul Bacchino malato (1593-1594) di Caravaggio, rappresentano per Paco Cao importanti momenti di dialogo, inteso anche come scavo, come movimento di conoscenza socratica, come risultato aperto di una struttura linguistica che caratterizza l’essere umano. Nocciolo di Innesti è, mi pare, una visione delle cose dove le mystère d’une identité, consciente de sa différence (Baudelaire), riprogramma la vita per disegnare un nuovo incontro, una  nuova coesistenza, una nuova – qui il segno e il gesto dell’artista si radica con tutte le sue forze evocative – permeabile impollinazione, un nuovo inevitabile tempo dell’infuturazione[8] che porta alla prossimità combinatoria, all’esperimento del riunirsi, all’attecchirsi o anche al possibile fallimento e all’incompatibilità, all’incrociarsi e al rimescolarsi, fino a pensare alla nascita di una nuova lingua (la città, del resto, «viene parlata dai suoi abitanti» con un «vero e proprio idioletto ambulante» e vissuta dalla sua curvilinea malerba, «frutto di una manovra esclusiva del Mondo»)[9], di una inedita trama vitale fatta di tanti cambiamenti, di tanti flussi di informazione e di tante prossime direzioni, impreviste o imprevedibili.

 

 

[1]    J.-L. Amselle, Logiques métisses. Anthropologie de l’identité en Afrique et ailleurs, Payot Bibliothèque Scientifique, Paris 1990, p. 49: «Ogni cultura, insomma, risulta essere intercultura in senso intrinseco: non è mai data e non si darà mai una cultura in sé predefinita e autonoma che entra in contatto con un’altra cultura altrettanto predefinita e autonoma, ma ogni cultura, al di là delle sue presunzioni o delle sue intenzioni più o meno dichiarate, si è sempre formata grazie al complesso delle sue mediazioni con culture diverse da sé».
[2]    Cfr. l’indispensabile volume di M. Fimiani, Ʃυνουσία. Filosofia in comune, Guida, Napoli 2011.
[3]    P. Ovidio Nasone, I fasti, trad. di L. Canali, Rizzoli, Milano 1998, pp. 411-412 (lib. II).
[4]    T. Livii Patavini, Historiarum Ab Urbe condita, Apud Paulum Manutium, Aldi f., Venetiis 1555, Praefatio, I, 4.
[5]    R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007.
[6]    F. Ortiz  Fernández, Contrapunteo cubano del tabaco y el azúcar, Ciencias Sociales, Cuba 1940.
[7]    E. Bloch, Geographica, trad. it., a cura di L. Boella, Marietti, Genova 1992.
[8]    G. Marramao, Kairos. Apologia del tempo debito, Laterza, Roma-Bari 1992.
[9]    S. Vitale, Antipedagogia della malerba, Giometti & Antonello, Macerata 2022, p. 19 e p. 26.