L’intervista a Rossana Rossanda per la mostra sul ’68

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È il preludio. Così è cominciato il 50° anniversario del ’68, nella ripresa del gesto di rottura radicale che si è abbattuto sulle società occidentali e che non ha lasciato indenne il mondo dell’arte. Comincia con la mostra È solo un inizio. 1968 (da 3 ottobre 2017 al 14 gennaio 2018 alla Galleria Nazionale), la prima in Italia dedicata al ’68 e ai suoi intrecci con i movimenti e i fermenti artistici che lo annunciano, gli corrono paralleli e lo prolungano.

Accompagna la mostra il giornale-catalogo È solo un inizio. 1968 con il testo della curatrice Ester Coen e interventi, tra gli altri, di: Franco Berardi Bifo, Achille Bonito Oliva, Luciana Castellina, Germano Celant, Goffredo Fofi, Franco Piperno, Rossana Rossanda, Lea Vergine, a cura di Ilaria Bussoni e Nicolas Martino.

 

 

L’intervista a Rossana Rossanda

 

Perché a tuo parere la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, che non ha mai fatto esposizioni o mostre a tema politico, si dedica oggi, a un anno dal cinquantesimo, a riproporre il tema del ’68 con i lavori degli artisti di quegli anni? Si tratta di un’«operazione nostalgia» o di una più cosciente provocazione per affermare che anche con l’arte si fa politica? Mi viene in mente la frase di Mao: «L’arte ė rivoluzionaria in quanto arte, non in quanto arte rivoluzionaria».

Non so cosa si proponga la Galleria Nazionale. Nel merito penso che sia meglio non confondere arte e politica, sono due settori totalmente diversi e implicano diversi criteri di misura. Perciò, a un’opera che si dichiara artistica va chiesto soltanto, secondo me, se lo è davvero e secondo quali criteri.

 

L’esperienza del «manifesto», a proposito del quale ricordo che mi hai detto – «il giornale deve essere una correzione permanente di tendenza alla linea del Partito» – è un frutto del ’68? Quanto deriva da quella esperienza?

Il giornale si proponeva di opporre la nostra concezione al problema di una politica comunista. Non eravamo d’accordo con le posizioni del Partito comunista italiano, né in tema di scelte internazionali né interne, e nemmeno sul regime interno del partito. Il movimento del ’68 pareva opporsi soprattutto a quest’ultimo, in tema di libertà e di rapporti con la sfera della persona.

 

Quel movimento è stato per te una sorpresa o corrispondeva alle tue idee?

Le mie aspettative corrispondevano a quello che una cultura critica abbastanza avanzata aveva elaborato in tema, appunto, di rapporti della persona (in relazione anche con la psicanalisi).

 

Il ’68 nasce da una rottura completa con la generazione precedente. Gli scrittori, per esempio, hanno pensato che questa rottura andasse fatta collettivamente. In Italia, si forma il Gruppo 63, escono le riviste «Quaderni piacentini», «Quindici», «La sinistra»…

Non so se sia giusto parlare di una «rottura completa». Si può anche sostenere che il ’68 tenta delle risposte a problemi sollevati dalle generazioni precedenti del ‘900 o di fine ‘800. Quanto al lavoro collettivo, intenderei per esso un lavoro fatto assieme: i gruppi cui accenni non hanno lavorato assieme, ma in contemporanea. E infatti, alla fine di quegli anni, ognuno si è sviluppato per proprio conto, quando non si è spento.

 

Nel film che ho girato su di te affermi che l’inizio della dissoluzione del PCI è cominciata nel ’68, del quale «il Partito non ha capito niente, avrebbe dovuto mettersi in ascolto. Invece o non ascoltava o li buttava fuori».

Erano i temi a cominciare dalle questioni della persona. Il Partito aveva sempre privilegiato, e in forma quasi esclusiva, il collettivo, i problemi sociali.

 

Al Partito cosa dava tanto fastidio di quel movimento? Non c’era una vera necessità di critica allo stalinismo, oppure erano i temi che proponeva con forza: la rivoluzione sessuale, il femminismo, la lotta comune tra studenti e operai? Sono stati anni di passioni dirompenti, di richiesta energica e appassionata da parte di giovani generazioni che cercavano di vivere in un mondo nuovo, diverso, gioioso e libero. A questo si è risposto con una repressione violenta, i compagni sono stati spinti alla lotta armata che mette fine a due generazioni. E forse la violenza nasce già da Piazza Fontana dicembre ’69?

Non credo che si possa imputare al PCI una forma di «repressione violenta». La repressione si è espressa soprattutto nel rifiuto di affrontare le questioni che il ’68 stava ponendo. La repressione è venuta realmente da parte dell’«avversario di classe», sia sociale che politico. Piazza Fontana è stato un tentativo fascista, per il quale in forma contorta si è avuto anche una condanna. Ma non è l’unico attentato in senso proprio che è stato giocato in chiave anti-68. Da parte del PCI, c’è stato un appoggio diretto o indiretto alla critica delle tesi studentesche e della gioventù operaia che ne era coinvolta; non è detto che queste critiche siano state meno serie. Il movimento degli studenti è stato isolato, mentre in genere le tematiche del ’68 sono sopravvissute in Italia in vari settori, soprattutto nella critica alle cosiddette «istituzioni totali», per tutto il decennio successivo (manicomi, ospedali, esercito, ecc.). Nel frattempo l’afasia del Partito Comunista contribuiva alla sua stessa decadenza, non solo in Italia ma anche in altri paesi.

 

Tornando al tema del conflitto tra generazioni. Mi sembra che quel conflitto avesse le sue motivazioni, condivisibili, soprattutto nelle università e nelle fabbriche, per non parlare del Partito. Niente a che vedere con la proposta antipolitica di oggi.

Hai perfettamente ragione. All’epoca, la critica al PCI non significava una critica alla «politica» come oggi, se non in una forma assolutamente specifica. D’altra parte, i portatori del movimento sono del tutto diversi: oggi sono Salvini e Grillo, nel ’68 erano le avanguardie giovanili delle università e delle fabbriche.

 

Sempre nel film dici che oggi questo tipo di esperienza è impossibile, perché si è perso non solo il sentimento del «collettivo» ma anche il desiderio di combattere insieme. Credo che il cambiamento più insidioso sia dovuto al Web, che ha eliminato i corpi, la voce, lo stringersi assieme in una manifestazione, istituendo connessioni virtuali che possono portare voti, ma non relazioni tra umani.

Non saprei dare la colpa particolarmente al Web, che credo possa essere una straordinaria forma di comunicazione: se penso a quando per comunicare con una fabbrica o un paese, bisognava fare chilometri di bicicletta! È l’uso del Web che ne ha fatto uno strumento più di disgregazione che di comunicazione, ad esempio con i social network. Non a caso sono il luogo prediletto dal quale ognuno ricava le proprie vendette e accusa o insulta l’altro.

 

Un partito come Podemos in Spagna cerca di riproporre rapporti collettivi meno astratti. Non sarà la forza del ’68, ma si tratta forse di un tentativo di prenderne il testimone?

Podemos è un tentativo molto interessante di rinvigorire lo spirito della politica, che nei partiti abituali oggi è molto spento. Non mi pare tuttavia che vi sia un vero e proprio collegamento con il ’68, che oggi appare completamente chiuso.

 

La mostra propone il ’68 come «anno emblematico». L’arte e la cultura aiuteranno la politica a ripensare un nuovo linguaggio per le sue utopie?

Anzitutto, non penso che la politica, come noi l’abbiamo sperimentata, e così come l’ha fatto l’inizio del secolo scorso, fosse «utopica». E non auguro a nessuna politica di esserlo, se utopico significa non avere collocazione in nessun luogo. Inoltre, non vedo molto che cosa sia rimasto oggi di una così profonda modificazione dei mezzi e dei linguaggi. Mi piacerebbe, ma, ripeto, non vedo chi e dove. Siamo ancora in piena crisi delle tematiche del Novecento.

 

Intervista a cura di Mara Chiaretti per il giornale catalogo della mostra È solo un inizio. 1968