Roma città chiusa – Ep. 5 ....

Notturno tricolore
foto e testo di Anton Giulio Onofri

 

È un mese ormai, che attraverso Roma in lungo e in largo e la fotografo deserta per l’emergenza Coronavirus. Non più inedita, quindi, è per me questa quiete irreale che la costringe a esibirsi nuda come la statua in pietra di una ninfa barocca, smarrita e delusa perché il dio che la corteggiava ha visto nella sua paura svanire il mistero, e ha smesso di inseguirla. Ha cercato, Roma, di dirmi qualcosa nelle giornate che le ho dedicato in questo mese di aprile: come se avesse finalmente deciso, lei così eterna e unica, di spogliarsi del proprio secolare disinteresse per le masse che la affollano, e rispondere al mio sguardo, cedere alle lusinghe del mio obiettivo, per lanciarmi un messaggio che io, concentrato nel comporre le mie inquadrature, ho inconsapevolmente dirottato nelle mie foto, dove a mente fresca e, si spera, a emergenza finita, riuscirò presto a decifrarne i codici.

 

 

Ma venerdì 24 aprile è sera, e Roma è buia. Nessun faro d’automobile, nessuna insegna o vetrina di negozio ne illuminano strade e piazze. L’aria, più fresca di quanto non sia di solito in aprile, da due mesi è pulita, frizzante, libera da polveri e smog, eppure in giro regna una allarmata sensazione di coprifuoco. Le luci dei colori della bandiera italiana proiettate sulle facciate di banche, alberghi e palazzi istituzionali non hanno niente di festoso e di celebrativo: sembrano anzi dei fari per inviare alle nuvole un SOS luminoso, come un Bat-segnale che invochi l’intervento di un Supereroe con mantello e calzamaglia in grado di liberarci dal virus del pipistrello.

 

 

Parcheggio ai Santi Apostoli e a piedi attraverso velocemente Piazza Venezia. Siamo soltanto io e i due soldati di guardia alla tomba del Milite Ignoto. Mi sento di aver oltrepassato la soglia di una confidenza concessami in esclusiva e per la prima volta nella mia vita, da una città che non ho mai afferrato fino in fondo, e dove non mi sono mai sentito agevolmente a casa. In quei brevi minuti di passo spedito lungo la piazza, sento battere vicinissimo il cuore impaurito di Roma, amplificato dalla conchiglia acustica del Vittoriano. Mi inoltro nell’intimità del suo corpo, il suo respiro è irregolare, il diaframma contratto, l’ansia incontrollata. Percorro in salita i gradoni del Campidoglio come un Pinocchio in perlustrazione nel ventre del Pescecane alla ricerca del papà falegname, e lassù, nella pancia teatrale allestita da Michelangelo, dove sul fondoscena fiammeggiano le lingue infuocate del tricolore, distinguo, in controluce, un fantasma buono che col braccio sembra indicarmi la fine di questa notte lunga e buia.