Mare mare, non ti posso guardare così
foto e testo di Anton Giulio Onofri
Ho vissuto dieci anni della mia vita a Milano. Gli ultimi dieci anni dell’altro secolo. Dieci anni felici dove tutto mi sorrideva in un magico accordo, il lavoro, il denaro, l’amore. Quando mi dissero che sarei dovuto tornare a Roma, ricordo che era sera, mi misi a piangere in mezzo a Via Meravigli. Eppure c’era una cosa di Roma, l’unica per cui provassi davvero una profonda nostalgia durante quel periodo di attività frenetica, che a Milano mancava del tutto: la vicinanza del mare. In quarantacinque minuti, la sera anche trenta, da Roma sei al mare (e non al lago, che è tutt’altra cosa), già da metà aprile, quando il sole di mezzogiorno scalda e abbronza, e se non hai voglia di bagnarti perché l’aria è ancora troppo frizzante, puoi mangiarti un piatto di spaghetti alle vongole con i piedi nudi affondati nella sabbia. Impagabile. Insostituibile. Tutto questo mi è terribilmente mancato nei mesi dell’emergenza del virus, caduti nel pieno di una primavera quest’anno particolarmente gloriosa per sole, luce e bontà del clima. Agli sgoccioli della Fase 2, con gli arenili ancora chiusi e impraticabili, sono arrivato da via Cristoforo Colombo nella giornata più bella di questo 2020, come indovinerete dai cieli delle mie fotografie, per registrare il doloroso e attonito impedimento degli ostiensi all’uso di stabilimenti e spiagge in maggio solitamente già gremiti, almeno il sabato e la domenica.
Le file delle cabine tinteggiate a pastello sono forse un soggetto facile e fin troppo abusato per i fotografi, ma chissenefrega: l’elemento inedito dei miei scatti saranno le sabbie intonse e immacolate, gli azzurri intensi dei cieli anche nel caso dei controluce, il verde smeraldo del mare come soltanto l’aria asciutta e pulita della primavera può restituire, prima che la calura estiva e gli abbagli del solleone intervengano a seccare i fiori, a smorzare e ad appiattire la paletta dei colori.
Sul Lungomare Duilio, nel rispetto della distanza di sicurezza, le persone si snocciolano su panchine e parapetti come note sul rigo di un pentagramma. Ozio, esercizi ginnici, conversazioni al cellulare, corse in bicicletta sono tra le attività favorite, per distrarsi dal desiderio di calpestare il bagnasciuga.
Vengo spesso ad Ostia nei mesi che precedono agosto, a volte anche due, tre giorni consecutivi, dalla mattina alla sera: sembra che la sua sabbia ferrosa contenga sostanze che garantiscono l’intensità e la permanenza di un’abbronzatura più decisa che altrove, e a fine luglio, verso il tramonto, cala una doratura di luce che immerge uomini e cose in un’aura sospesa di struggimento che a fine vacanza, dopo il rientro di settembre, resterà tra i ricordi più dolci dell’estate. Più popolare, più selvaggia di Fregene, Ostia e il suo mare possono vantare una tradizione cinematografica di altissimo profilo: qui Fellini girò alcune sequenze de I Vitelloni, e qualche anno prima il Lido si trasformò nel set del capolavoro di Luciano Emmer, Domenica d’agosto. Ad Ostia sono legati i nomi di Sergio Citti e di Claudio Caligari, che ci ambientò Amore tossico e Non essere cattivo, il suo primo e il suo ultimo film, prima di andarsene troppo anzitempo da questo mondo. Al Kursaal, lo stabilimento famoso per il trampolino di Pier Luigi Nervi, Anna Magnani girò buona parte del suo ultimo film, L’automobile. Venire ad Ostia per un romano, anche se in semplice fuga serale per un gelato da Sisto, è un po’ come andare al cinema: esci di casa, lasci la città, e vieni qui a specchiarti nel grande schermo dell’acqua del mare.
Arrivare ad Ostia, come faccio sempre io, da via Cristoforo Colombo permette di avvicinarsi al centro cittadino passando davanti al quartiere di villini residenziali degli anni ’30, quando il Lido era destinato a trasformarsi dal borgo di mare che era in città-giardino e località balneare di pregio. I più belli sono ovviamente i due Villini A e B di Adalberto Libera, circondati da numerosi tentativi di imitazione che per eccesso di decorativismo o scarsa audacia dei progettisti non superano e neppure eguagliano i modelli di riferimento. Sono certamente ‘seconde case’ di qualche famiglia confinata a Roma per via del Decreto del Governo, perciò sono parzialmente disabitate. Fortunatamente, sul Lungomare Toscanelli e nei pressi di piazza Anco Marzio la vita si anima: corse in bici, giochi di bambini, passeggiate in coppia o col cane, jogging. Un sole acceso esalta tutti i colori del Palazzo del Pappagallo, altra architettura ostiense degli anni ’30 che mi è cara da sempre: agli antipodi dei dettami del razionalismo, l’architetto Mario Marchi si divertì a conferire all’edificio le caratteristiche di un’imbarcazione e i colori del piumaggio di un ‘Pappagallo’ di Fortunato Depero. A pochi passi, si impenna il monolite di Pietro Consagra dedicato a Pier Paolo Pasolini. Non ho mai capito se mi piace o meno, ma è pur sempre un monumento a Pasolini.
Fuori dell’Ufficio Postale di Angiolo Mazzoni si fa la coda come ormai dovunque, distanziati e muniti di mascherina. Ho voglia di un gelato ma il bar Sisto è chiuso e dunque non avrei più niente da fare, qui ad Ostia. Mi lascio tentare da un ultimo richiamo del mare, e mi affaccio su piazza dei Ravennati dove mi metto ad osservare da lontano i passeggiatori della sera, animaletti minuti sotto gli altissimi lampioni a ricciolo. Per tutti è un tardo pomeriggio come gli altri, e all’aria aperta si può fingere di non soffrire troppo le attuali restrizioni, nel ricordo di quando fino a due settimane fa non ci si poteva muovere dall’uscio di casa. Mi dirigo al Pontile, ma lo trovo sbarrato, inaccessibile, e a guardarlo così deserto, proiettato come ideale proseguimento della Via del Mare verso un orizzonte che nasconde chissà quale destino a tutti ignoto, mi tornano in mente le cartoline di Roma deserta scattate all’inizio di questo mio viaggio, che come tutti i viaggi è un percorso all’interno di sé: mi scopro nuovamente ignaro del futuro che ci aspetta laggiù dietro quell’orizzonte dove tra breve il sole tramonterà. Il deserto, il vuoto di Roma, intorno ai suoi ruderi, alle sue pietre barocche, alle sue cupole e ai suoi obelischi, offeso dal volo di droni impenitenti e incapaci di assumersi la responsabilità di uno sguardo, si stende su questo pontile come un lenzuolo esausto liberatosi del fantasma che lo teneva in piedi, per affidare al mare, Gran Madre della Terra, la preghiera di una tregua.