Roma città chiusa Fase 2 – Ep. 1 ....

Dove l’aria è popolare è più facile sognare?
foto e testo di Anton Giulio Onofri

 

Mentre Roma e i romani si risvegliavano dal letargo del confinamento e con moderazione ripopolavano le vie della città, come quando ai primi di settembre si dice che ‘sono ormai tornati non proprio tutti, ma quasi’, nei primi giorni della Fase 2 mi sono allontanato dal centro con il proposito di andare a verificare il parziale ritorno alla normalità di chi vive là dove una volta ‘c’era l’erba’, poi le borgate di Pasolini, poi l’edilizia popolare degli anni ’80, e adesso un vero e proprio satellite della Capitale, che ha conservato negli anni la nomea di ‘quartiere difficile’. Come dice il mio giovane amico Alessio, che ci abita dal 1994, Tor Bella Monaca è un rione popolare che ha, come tutti i rioni popolari, pregi e difetti, ma certamente più difetti che pregi. E se lo dice lui, io, spocchioso borghesuccio di Roma Nord (anche se in realtà vivo a Montesacro), mi adeguo.

 

 

L’avvicinamento in auto è come l’ingresso in una cittadina dei film Western, americani o Spaghetti non fa differenza, perché in ognuno di quei villaggi troverai un saloon, uno sceriffo, dei pistoleros, e non sai mai cosa sta per succedere. Imbocco, per simpatia toponomastica, Via Amico Aspertini, il pittore bolognese del ‘500 collezionato da Lucio Dalla (è lui il ‘caro Amico’ cui scrive nella famosa canzone) e arrivo in Via dell’Archeologia, dove ritrovo le torri e i serpentoni che avevo già filmato nell’inverno 2002, quando insieme allo scrittore Aurelio Picca confezionammo un documentario su Tor Bella Monaca, in quei tempi oggetto di un sostanzioso tentativo di riqualificazione. Mi attira un murale dove il viso di una ragazza è segato a metà dal sole e dall’ombra, ma mentre lo fotografo avverto di non essere il benvenuto, perciò risalgo in macchina e vado all’appuntamento con Alessio sotto il murale di Jeeg Robot, omaggio al film di Gabriele Mainetti girato da queste parti. Arrivo in anticipo, perciò rubo qualche altro scorcio attratto da un tenero buongiorno graffitato su una parete dove l’ombra gioca con gli angoli della palazzina, e dalle bandiere italiane esposte alle finestre, ma anche qui mi sento osservato con sospetto e fastidio. Finalmente arriva Alessio.

 

 

Alessio suggerisce di spostarsi verso la zona nuova dove, dice lui, la gente si lascerà fotografare senza problemi. Vuole mostrarmi il Teatro, inaugurato nel dicembre del 2005, che ha ospitato Leonardo DiCaprio e Sylvester Stallone: così sprangato, come tutti i teatri del mondo in quest’epoca di virus, proprio in un luogo dove maggiore sarebbe il bisogno di cultura, di accoglienza e di ridistribuzione delle idee di solidarietà e condivisione delle emozioni, è il simbolo più eloquente e doloroso della nostra impotenza davanti agli scherzi maligni di Madre Natura. Accanto al Teatro c’è un ufficio postale, dove nella scrupolosa osservanza della distanza di sicurezza, tutti muniti di mascherina, aspettano in fila ordinati e civili avventori. Tra loro spicca una coppia di donne africane: ricamato sulla giubba turchese della più robusta si legge, in giallo oro, Italia, mentre l’altra, slanciata e di considerevole avvenenza, indossa un’abbagliante tutina a scacchi giallonera, dove il nero è quello del suo incarnato, dei suoi capelli, dei suoi sandali, e della sua elegante tracolla in pelle, mentre il giallo è lo stesso del logo di Poste Italiane.

 

 

Fila ordinata anche al supermercato del Centro Commerciale Le Torri, affacciato su viale Duilio Cambellotti (l’artista cantore dei contadini e delle bufale dell’Agro Pontino), che lo separa dalla Chiesa di Santa Maria Madre del Redentore, gigantesca kenzia rovesciata, o prora di veliero interstellare, organo a canne, mani giunte in preghiera, antenna parabolica comunque troppo distante dalle strade dell’illecito e del malaffare per intercettarli e contenerne l’infezione purulenta. Qui, nella porzione compresa tra viale Duilio Cambellotti e via Bruno Cirino (l’attore dello sceneggiato televisivo Diario di un Maestro diretto nel 1973 da Vittorio De Seta), in questo sereno pomeriggio di maggio all’inizio della Fase 2 dell’emergenza Coronavirus tutto è fin troppo tranquillo: nessun bambino in giro, solo un buffo cane barbone bianco dal pelo cotonato e con la testa colorata di azzurro aspetta docile che il padrone termini la sua consumazione nell’unico bar aperto. Vorrei offrire un caffè ad Alessio che, forse spaventato dall’idea di tornare in un bar dopo due mesi di astinenza, rifiuta. ‘Lo prendo dopo a casa’, dice.

 

 

Alessio mi saluta e torna a casa. Mancherà ancora un’ora al tramonto, perciò non mi do per vinto e ritorno nella ‘zona calda’ con l’intenzione di non puntare l’obbiettivo contro nessuno. Non voglio urtare la suscettibilità di chi potrebbe avere una reazione imprevedibile che non sarei in grado di affrontare. Attraverso per tutta la lunghezza via Paolo Ferdinando Quaglia, affollata dai clienti dei negozi di frutta e alimentari, ma pure da molta, troppa gioventù ignara di mascherine e distanze, e raggiungo la più pacifica e discreta Via Santa Rita da Cascia. È lei, la Santa degli impossibili, la ‘Bella Monaca’ che secondo la leggenda sostò in questi siti durante il suo viaggio a Roma per il Giubileo del 1450. La luce è bellissima e il cemento imbiancato delle Torri assume una tinta ambrata che ne ingentilisce l’ingombro. Uso il teleobbiettivo per cercare, in tanta massiccia banalità architettonica, disegni nascosti tra linee e volumi dove innestare l’arco di un semaforo, l’ombra del fogliame di un albero, la casuale sventolata di un tricolore, la luna, e al di là della retorica sulle periferie dalla quale mi ritengo immune, penso a quelle brave persone, quei genitori buoni e onesti che hanno aiutato i figli a stendere una bandiera o un drappo con una scritta beneaugurale sul davanzale di casa, per spezzare le monotone file verticali delle finestre (che tuttavia ora, bagnate dalla luce vespertina, sembrano affacciarsi su un lontano Canyon da film Western, americano o Spaghetti non fa differenza…), e mi unisco a loro nella comune speranza che presto si ritorni tutti alla vera normalità.

 

 

(Il documentario fatto insieme ad Aurelio Picca nel 2002 conteneva un’intervista a Sergio Citti sulla trasformazione di quelle che una volta erano note come ‘borgate’. ‘I borgatari, come li intendeva Pasolini, oggi non esistono più. Si sono imbastarditi, imborghesiti, vònno esse uguali ai ragazzi der centro de Roma… Oggi, se vuoi cercà un sorriso onesto, una dolcezza, una tenerezza, li trovi solo nella faccia di un extracomunitario. Ecco, oggi sono loro, gli extracomunitari, i borgatari de Pierpaolo…’ Infatti, tornando verso l’auto parcheggiata sotto il murale di Jeeg Robot con il tappo sull’obbiettivo per non dare a credere di voler fotografare qualcuno, passo davanti a una gelateria e mi sento chiamare: ‘Ehi tu, mi vuoi fare una foto?’ Riconosco l’accento nordafricano, mi volto, e rispondo col mio al sorriso di un uomo con barba, berretto a visiera e pantaloncini che si è già messo in posa per me. La scena è bella ricca di colori e dettagli, ma l’inquietudine mi mette fretta e, senza prendere il fuoco correttamente, scatto e ringrazio il soggetto che aggiunge: ‘Come sono venuto?’… Oggi sono loro, gli extracomunitari, i borgatari di Pierpaolo).