Loro. Profezie su un mondo che non c’è
di Ilaria Bussoni
Loro sono tornati. Loro sono tornati a ripopolare le strade, le spiagge, i parchi pubblici, le montagne, i laghi, le città d’arte… Le botteghe, i negozi, i centri commerciali, gli studi professionali… Loro sono tornati a muoversi tra le regioni, le province, i comuni, i bar. Ai bordi e dentro le piscine, in doppiafila nei viali, con gli scooter, i monopattini, i suv, da soli e con i loro animali domestici. Loro sono tornati, con le loro voglie di cappuccino, di spritz, di pizza al taglio, di depilazione. Se n’erano mai andati?
L’apocalisse, si sa, non è mai cosa pulita. Nel disastro non stai a pensare al decoro pubblico. Nella fuga non ti fermi a riassettare la biancheria di casa. Ci penserà poi la Natura a rimettere ordine. Ma in questa, in questa sventata che non ha estinto il genere umano, che ha lasciato intatti la gran parte dei doppi Sapiens e i loro gusti di vita pubblica, ci sarebbe da valutare, oltre alla provvisoria risalita della qualità dell’aria nelle urbi, oltre a quel po’ di verdura cresciuta qualche centimetro più in là degli interstizi e che a breve perirà per mano dei servizi giardini in subappalto che nemmeno sanno darle un nome, occorrerebbe provare a stimare la quantità di resti, estensioni, appigli, attrezzi vari, cose, ingombri, che abbiamo sparpagliato intorno a noi nell’affollarci verso la solitaria reclusione delle nostre quattro mura domestiche cui eravamo destinati, nell’attesa di vedere se il mondo finisse.
E mentre aspettavamo, nello spavento di ritrovarci da soli proprio sul punto dell’estinzione, ci siamo affrettati a riempire quello spazio che ci separava da loro con la varietà più estesa di forme della loro presenza. Ci siamo ripopolati all’istante ritrovandoci immersi in un brodo primordiale di parole, battute, barzellette, parole, motti di spirito, vignette, parole, facce HD, piani di volti primissimi, anche solo pezzi di occhi o di nasi, parole, un Vajont di impronte sonore con forme di senso, segni scritti e pop-up con funzione di significato, gesti duplicati su qualunque supporto verticale orizzontale più o meno plasmatico purché dotato di una quantità sufficiente di minerali digitali per far passare al qui qualunque tele. Loro c’erano tutti. A qualunque ora. In qualunque angolo. A chiamarci, risponderci, interromperci, sollecitarci. Loro non se n’erano andati, affatto, e la Terza o Quarta Rivoluzione Industriale tutta era impiegata a riprodurli nelle nostre vicinanze, non senza qualche effetto sul global warming e la produzione di rifiuti tossici e il sospetto teleologico che lo sforzo tecnologico di tre o quattro generazioni non avesse altro fine che questo: tenerceli vicini.
Ci vorrà un po’ di tempo per ripulire il marasma di cose dette, chiacchiere accumulate, rosari social sgranati che ancora ingombrano la nostra soglia di casa mentre loro già escono, ci vorrà del tempo per fare il triage di quel che val la pena tenere del dettato globale di cui ci siamo circondati mentre il mondo finiva. Ma il tempo della raccolta differenziata può anche aspettare. Anche stavolta il mondo non è finito e a rimettere ordine tocca a noi, mentre la Natura va a fare da sfondo, dove da qualche secolo è sempre stata.
Ora che loro sono tornati e possiamo finirla di tastare il polso ai nostri wireless per verificare se ancora ci sono, ora che loro hanno smesso di destare la nostra inquietudine da sindrome di abbandono, ora che ci siamo garantiti che loro hanno trascorso la nostra stessa vita di vociante clausura, di mancata astinenza e frastornante silenzio, finalmente possiamo ricominciare a ignorarli, tornare a cercare le condizioni per vivere il nostro «privilegio», di «vivere fuori e sopra, vivere soli». Chissà se Guido Morselli, nello scrivere il suo romanzo sull’indolore e istantanea scomparsa del genere umano, tranne Uno, ha pensato di piegare la storia al loro ritorno, negli alberghi di lusso della Zurigo degli anni Settanta e in quel che restava della cultura alpina delle Valli Romance, nella Svizzera del capitale internazionale in pieno boom economico e in perfetta sintonia col nascente turismo d’alpeggio. Chissà se ha pensato a ridisegnarli uno per uno nelle loro singole traiettorie di individui ben separati lungo un destino di successo o fallimento, tornati alle loro vite, dopo esser stati chissà dove: «la morte-premio, come emigrazione turistica collettiva» si interroga il protagonista di Dissipatio H. G. nel cercare una spiegazione al venir meno di tutti i suoi simili, eccetto Uno. Esperienza a tutt’oggi ripetibile in molte città intorno al ferragosto. Chissà se ha pensato a farli tornare, ripopolando il mondo di uniche eccezioni come ci è stato insegnato a pensare noi stessi dacché esiste il Soggetto, a ricollocarli perbene ciascuno al suo posto nelle loro vite con giardini nel mondo di qua, restituendoli a quel che ciascuno ha di pertinenza (la proprietà, la famiglia, la nevrosi) e sciogliendo quell’indistinzione di un mondo di là nel quale sembrano essere finiti tutti, a promemoria di una somiglianza che continuiamo a scongiurare sulle lapidi: «Fatemi morire, nel bene o nel male li devo raggiungere. Non ero diverso da loro, mi assomigliavano tutti. Ignoranza e superbia incluse».
No, Guido Morselli, in questo fedele all’insegnamento di Giamblico, non li ha fatti tornare. Perché avrebbe dovuto se nei cinquant’anni che ci separano dalla stesura del romanzo – 1973 – abbiamo vissuto all’insegna dell’ecceità, legittimati a pensare a Uno un suo mondo, a una relazione biunivoca tra un soggetto che siamo noi e un oggetto che è tutto il resto, col paradosso di presumere di estendere lo stesso diritto anche agli altri ma senza l’obbligo di doverne tenere conto. Non serviva leggere i grafici sull’aumento di consumo di psicofarmaci per accorgersi che quando ci si ritrova da soli di fronte a tutto il resto, quando la frontalità tra attivo e passivo ci colloca dentro un angolo ottuso, quando la vita è la nostra e tutto il resto non lo è, si finisce nella psicosi o nel disastro ecologico, che poi sono la stessa cosa. Loro è ciò che consente al protagonista del racconto di Morselli la moltiplicazione dei mondi, nel momento in cui è condannato a vivere il suo, nient’altro che il suo: «In città ero spettatore, qui io devo vivere. Dove sono andati. Perché sono andati».
Il tema del romanzo non è allora la fine del mondo perché l’umanità è sparita, ma la fine di tutti i mondi proprio perché ne è rimasto solo Uno. Il mondo che resta è invivibile, non per penuria di comodità o disagio ambientale, non per un ecodisastro o le malagesta degli ultimi ad andarsene, ma perché loro è ciò che consente di rompere un’identità che non ha niente a che fare con la vita. La moltiplicazione dei mondi sembra essere la sola condizione perché ce ne sia almeno uno in cui si riesce a vivere. Lo sa bene chi è recluso in un carcere.
Ed è attraverso di loro che ciò accade. Perché loro è ciò di cui siamo fatti. Il famoso verso di Arthur Rimbaud «Io è un altro», poi ripreso dallo psicanalista Jacques Lacan, non si limita a indicare la sconfortevole differenza che scopriamo dentro noi stessi quando pensiamo di essere identici, ma indica quel rimbalzo continuo tra io e l’altro che è la nostra costituzione, e insieme è la nostra ferita insanabile di animali venuti al mondo troppo presto per potercela cavare da soli. «Vivere è essenzialmente vivere della vita altrui: vivere nella e attraverso la vita che altri hanno saputo costruire e inventare», scrive Emanuele Coccia nel suo La vita delle piante.
Loro ci servono. È grazie a loro che si dà un movimento della vita umana. È attraverso di loro che possiamo spostarci da noi stessi e finire in luoghi che dall’unicità della nostra posizione non avevamo immaginato, che nemmeno potevamo vedere. Loro sono da sempre i rami che afferriamo con il nostro pollice opponibile da quando siamo scesi dagli alberi. Loro sono il nostro primo strumento dacché ci affacciamo in un mondo che non ci si para davanti precostituito e disponibile, e per il quale siamo del tutto impreparati e continueremo a esserlo. Per quanto insopportabili, arroganti, padronali, ridicoli… loro sono l’unico modo che abbiamo per stare al mondo. E si badi a non confondere la dimensione relazionale che ci contraddistingue, nella sua insopportabile ambivalenza di necessità e repulsione per loro, con il mutuo aiuto, la solidarietà, la benevolenza e l’intero apparato di un moralismo che serve solo a ribadire il dualismo di noi e gli altri. Non è vero che ci siamo noi e che se siamo buoni e beneducati allora ci sono anche gli altri. È vero che ci dibattiamo tra confini incerti su dove finiamo noi e iniziano loro che nemmeno la nostra biologia aiuta a chiarire, e figurarsi quel ritorno di immagine di un sé oggi moltiplicato su ogni interfaccia, che come dice il nome, appunto, è un’interfaccia.
A un certo punto del romanzo di Morselli, il protagonista, l’unico rimasto ad agire nel mondo del resto, comincia a indossare abiti e sottovesti da donna. Crollo psichico e disordine dell’identità di genere per eccesso di solitudine? si chiede il lettore. Non proprio. Ricerca di un po’ di differenza, piuttosto. Tornare a sentire nel corpo che ti si riduce al tuo qualcosa di diverso da quell’identità che è annientamento di ogni vita possibile. Senza differenza, non si vive. Perché si muore, infatti? La ragione è semplice: per fare posto alla vita degli altri. Non per buonanimo, come sull’autobus si cede il posto a un infermo, ma perché la dinamica della vita può procedere solo rilanciando la differenza. Dio è deleuziano.
Il filosofo Giamblico di Calcide verosimilmente non ha mai scritto un testo dal titolo Dissipatio Humani Generi. Guido Morselli dà al proprio romanzo il titolo di uno scritto che prevede l’apocalisse, ma che non è mai stato scritto. Errore di attribuzione o qualcos’altro? Tra i pochissimi lettori cui è venuto il dubbio o la legittima curiosità di sapere cosa avesse detto l’illuminato autore siriaco, c’è chi sostiene la prima opzione – errore del latinista Morselli –, interpellando così un autore ancor più remoto per cose dette di Giamblico, tale Salviano da Treviri o da Marsiglia. Noi preferiamo l’opzione del qualcos’altro. Forse perché in gioco, qui, sembra esserci qualcos’altro: la parola profetica e la sua veridizione. La profezia, tra tutte le locuzioni retoriche, è quella che maggiormente implica un autore. Cosa vuoi che conti una profezia anonima? La profezia vale perché c’è qualcuno che l’ha detta, con una certa convinzione come vuole il registro. Chi profetizza è Uno (o Una) che si prende sul serio. La recente Greta ce lo dimostra. Parola lanciata nel futuro, poco importa che il dire della profezia abbia a un certo punto una qualche corrispondenza con il luogo in cui risuona. Perché del dire viene prima, in quel pre che riporta la parola al lancio di un sasso e alla sua mano. Rispetto al dire la profezia sta sempre da un’altra parte. Il suo effetto è nel lancio stesso, in una parola che vale perché ricondotta al suo peso di una materia che può dire qualunque cosa e perché nello svincolarsi da tutto il resto (incluso qualcuno cui dirla) resta agganciata solo alla mano di chi la tira. Non c’è profezia senza un nome proprio. Non c’è profezia che si rivolga a qualcuno. Nella profezia loro non esistono.
Nel suo libro su Muhammad Ali, Marco Mazzeo individua nel pugile di certo non l’ultimo, ma quantomeno il più interessante utente della figura retorica degli ultimi decenni. Clay/Ali è la dimostrazione che la profezia si autoavvera non perché ci azzecchi, ma perché ha un effetto sul campo di forze in cui interviene. A lanciarla, già modifica il dato mentre va a confermare la posizione ben salda di chi la formula. Al pugile nero serviva per stare dritto sul ring e stendere quell’altro, non per dimostrare la sua intelligenza. I profeti stanno sempre in piedi.
La postmodernità abbonda di profezie autoavveranti, tutte raccapriccianti. Non perché false, ma perché tutte si collocano nel registro di una finzione: fingono di muoversi nell’ambito di un sapere, quando perché vi sia profezia occorre un sapere che fa sempre difetto (ogni profezia si fonda sul difetto di sapere di chiunque altro); fingono che il dire abbia una qualche attinenza con le cose, quando il dire ha sempre un effetto sulla disposizione delle cose (le parole e le cose non combaciano mai, né qui oggi e tantomeno in futuro); fingono di agire per il bene degli altri, quando per la parola profetica loro sono già tutti morti.
Con scarsa originalità rispetto all’ultimo millennio, l’abbondanza della predizione applicata alla nostra fine – declinata sulla specie, la vivibilità complessiva, la Terra, la Natura, la Cultura, il Capitale, la morale, l’aria l’acqua le risorse, i sentimenti, l’umanità, la democrazia – è stata negli ultimi decenni la forma prevalente con la quale si è data la critica della permanenza delle nostre forme di vita su questo pianeta. Tanto per essere sicuri di lasciare le cose invariate. Chi ha pensato di far meglio ci ha messo anche l’oggettività del calcolo scientifico. Pro o contro, loro si sono ostinati a interloquire. Non era ciò che serviva. La loro fine si era già consumata, cosa che non ha impedito alle narrative dell’apocalisse di moltiplicarsi. Del resto, era il modo più semplice per dire io.
Rivolgersi a qualcuno che non c’è, farsi vedere da qualcuno che non ti guarda, dare risposte che non si hanno a qualcuno che non fa domande, piccoli quotidiani paradossi della relazione con loro. Chissà se ne terrà conto il prossimo Decreto legge, con quel povero governo impegnato nel tentativo disperato di mettere in giurisprudenza la materia inafferrabile della non relazione e dei suoi gradi di prossimità. Faccenda ulteriormente complicata se tra loro mettiamo anche quelle cose che pure vivono o che ci sono anche da prima di noi e che se non ignoriamo parimenti agli umani è solo per la presunzione di conoscerle, o magari di preservarle o di ricavarne qualcosa, di certo non per il piacere di averci a che fare. Tutti quei fatti che per comodità e per finzione ci siamo abituati a chiamare Natura: il loro biologico, il loro minerale, il loro animale, il loro dei sette e più regni cui è giunta la nostra tassonomia da quando Linneo ha voluto nominare il vivente. E il loro di un virus che nemmeno si sa se è del regno della vita. Di questo paradosso di una non relazione che si prolunga, o forse affonda, nella non relazione con tutto il resto, il sopravvissuto di Morselli ne è di nuovo testimone: «Sconfortante: la natura era bella e tremenda, ma in funzione a-sociale. Supponeva, negativamente, l’uomo. Io la volevo inviolata, però violabile. Mi sto domandando: per goderla c’era bisogno dei cartelli: “Vietato l’ingresso”?». Senza essere profetici, la risposta è sì. Siamo l’unica specie vivente che, diversamente dagli altri animali, non ha un mondo proprio, se lo deve inventare per poterne poi fare a meno.
Eppure non smettiamo di farlo, di ripetere l’errore di una generazione che non ha mai fine proprio perché coincide con la successione ininterrotta di fini. Il pianeta prolifera di mondi finiti tra i quali già di nuovi ne spuntano. Non smettiamo di crearne, senza i quali non possiamo vivere e dentro i quali non riusciamo a vivere. Questa irrequietezza che ci contraddistingue, questa insoddisfazione che abbiamo inscritta fin nella biologia delle cellule che dentro di noi nascono e muoiono continuamente, e noi con loro, è forse il nostro modo per fare la differenza. Per essere parte di quella dinamica della vita rispetto alla quale la morte è in fondo l’unica cosa del tutto estranea. Come afferma il presocratico Anassimone, Si muore per fare posto alla vita degli altri. A quella vita che senza di loro, semplicemente, non c’è.
Post dissipatio
Chiara Bettazzi – Diary 2012/2020
Lavinia Siardi – voce e pianoforte
Davide Tranchina – Strada stellare
Luca Gioacchino Di Bernardo – Post dissipatio