Pier Paolo Pasolini, Picasso, 1953
I
Nel tremito d’oro, domenicale
di Valle Giulia, la nazione è calda,
silenziosa: la sua innocenza è pari
alla sua impurezza. Sembra arda
di popolare gioia, ed è una noia
irreligiosa che solare si sparge
sui floreali gessi e i gran ventagli
degli scalini. Non è questo
che l’atto in cui si sbriciola un’Italia
istituita, un anonimo ed onesto
atto di civiltà… C’è chi lo compie
tra le aiuole infuocate e il fresco
buio che le solca dai prorompenti
pini di Villa Borghese, chi
n’è riverberato nelle pompe
festive di Piazza di Spagna e si
confonde in un brusio che trasale
intorno monotono e stupendo: qui
è più acceso il senso di un’Italia
vibrante in un’antica nota
di pace, in una morte dolce come l’aria,
dove la classe più alta regna immota.
II
E per la scalea l’anonimo, anima
senza memoria, in un corpo immiserito
da secoli di sogni umilmente umani
di borghese esperienza, ormai è mitico
in questa domenica dorata
che lo vede chiaro nel chiaro vestito.
Come d’improvviso appare ornata,
la sua vita, di mite passione,
e la sua mente (dominata
dentro il cuore dell’Istituzione
dalla sua dignità dura e servile)
come pare arda, immune testimone,
d’umile desiderio di capire…
III
La prima tela dalla scorza intensa
e ròsa, in un gemmante arabesco
quasi artigiano, dipinta con terra
e nascosto fuoco: ancora fresco
lo spirito del vecchio anteguerra
vi mescola scandalo e festa,
l’abnorme del pensiero e il puro della
tecnica, e ardente e affumicata
la superficie i suoi toni inanella,
ceree corolle su zolla disseccata.
Insegna della Francia più alta,
quando il tramonto pareva un’infuocata
alba, e la disperazione espanta
pena del creare, e il frantumarsi
del secolo un suo disegno araldico.
IV
Ma già gli spumeggianti e crudi figli
in nuvole di biancore, in acciarini
contorni, con purezza di gigli
e carnalità di cuccioli ferini,
delineano pur nel lume di un’idea
degna di Velásquez, pur nelle trine,
l’eccesso di espressione che li crea.
V
L’espressione che sul pelo affiora
del quadro, come da intimità viscerali,
infetta di bruciante disamore,
e ne squassa la squama di tonali
dolcezze, che, se resiste, e anzi
irrigidisce, è per materiali,
inebbrianti cagli. Ma tra i balzi
graffianti del pennello, la zona
di quasi prativa luce, gli sfarzi
dei disaccordi, ecco l’Espressione:
che s’incolla alla cornea e al cuore,
irrichiesta, pura, cieca passione,
cieca manualità, impudico gonfiore
dei sensi, e, dei sensi, tersa noia.
A nient’altro che a questo ateo furore
poteva, nella cadente Francia, Goya
cedere la sua violenza. Qui, a esprimersi,
sono pura angoscia e pura gioia.
VI
Dentro l’ordinata processione,
orda del sentire e del fare,
non del credere, paesaggi, persone
sono scheletri in cui corporeo appare
il loro perduto essere oggetti:
esprimerli è esprimerne il male.
La civetta patrizia con sul petto
un avido verde o un viola che altro
senso non ha che infiammare se stesso,
o nell’occhio uno sgorbio, folle e scaltro,
a tradire; i fiori che s’incarnano
a un feto o una seggiola e uno smalto
di toni che li incera nel composto
ingranaggio; le spiagge dove gongola
la gioia di un cadaverico agosto,
in cui l’inventare ha una mongola,
monumentale libertà che nulla costa,
una brutale libertà che il mondo
trasfigura per l’ignota forza
che ha il vizio, che ha la voluttà
dell’esibirsi: tutto porta
ad una calma furia di limpidità.
VII
Quanta gioia in questa furia di capire!
In questo esprimersi che rende
alla luce, come materia empirea,
la nostra confusione, che distende
in caste superfici i nostri affetti
offuscati! La chiarezza che ne accende
le forme interne, li fa nuovi oggetti,
veri oggetti, né conta, anzi è coraggio,
benché delirante, che si rifletta
in essi l’onta dell’uomo che appannaggio
fa dell’Uomo, l’onta dell’uomo più
recente, questo, questo che con saggio
calore guarda evidenziata salire su
nelle atroci lastre la figura
di se stesso, la sua colpa, la sua
storia. Vede ridotte alla furia oscura
del sesso le esaltanti repressioni
della Chiesa, e dispogliata in pura
chiarezza d’arte la chiara ragione
liberale; vede celebrata
in riverberanti figurazioni
la decadenza della snervata
borghesia ancora avida nel miope
rimpianto e nel cinismo…
Ma che lietezza profonda e quieta
nel capire anche il male; che infinita
esultanza, che vereconda festa,
nell’accorata sete di chiarezza,
nell’intelligenza, che compiuta attesta
la nostra storia nella nostra impurezza.
VIII
Poi ecco, colmo, l’errore di Picasso:
esposto sopra le grandi superfici
che ne spalancano in pareti la bassa,
fittile idea, il puro capriccio,
arioso, di gigantesca e grassa
espressività. Egli – tra i nemici
della classe che specchia, il più crudele,
fin che restavi dentro il tempo d’essa
– nemico per furore e per babelica
anarchia, carie necessaria – esce
tra il popolo e dà in un tempo inesistente:
finto coi mezzi della vecchia stessa
sua fantasia. Ah, non è nel sentimento
del popolo questa sua spietata Pace,
quest’idillio di bianchi uranghi. Assente
è da qui il popolo: il cui brusio tace
in queste tele, in queste sale, quanto
fuori esplode felice per le placide
strade festive, in un comune canto
ch’empie rioni e cieli, borghi e valli,
lungo l’Italia, fino all’Alpi, spanto
per declivi falciati e gialli
frumenti – nei paesi della smarrita
Europa – dove ripete i balli
e i cori antichi nell’antica
aria domenicale Ed è, l’errore,
in questa assenza. La via d’uscita
verso l’eterno non è in quest’amore
voluto e prematuro. Nel restare
dentro l’inferno con marmorea
volontà di capirlo, è da cercare
la salvezza. Una società
designata a perdersi è fatale
che si perda: una persona mai.
IX
Sfortunati decenni così vivi
da non poter essere vissuti
se non con un’ansia che li privi
di ogni quieta conoscenza, con l’inutile
dolore di assisterne la perdita
nella troppa prossimità… Muti
decenni, di un secolo ancor verde,
e bruciato dalla rabbia dell’azione
non trascinante ad altro che a disperdere
nel suo fuoco ogni luce di Passione.
Le ultime stanze gremisce la pura
paura espressa in cristalline zone
d’infantile e senile cinismo: scura
e abbagliata l’Europa vi proietta
i suoi interni paesaggi. E matura
qui, se più trasparente vi si specchia,
la luce della tempesta; i carnami
di Buchenwald, la periferia infetta
delle città incendiate, i cupi camions
delle caserme dei fascismi, i bianchi
terrazzi delle coste, nelle mani
di questo zingaro, si fanno infamanti
feste, angelici cori di carogne:
testimonianza che dei doloranti
nostri anni può la vergogna
esprimere il pudore, tramandare
l’angoscia l’allegrezza: che bisogna
essere folli per essere chiari.