intervista a Stefano Arienti
Stefano Arienti, Senza titolo (Ritratto di Federica Cimatti), 1996
Un’altra relazione costantemente mediata da una distanza è quella che stabiliamo con le immagini.
Le immagini digitali, continuamente disponibili e di fatto immateriali si muovono in uno spazio in cui le distanze sono completamente azzerate, senza necessariamente creare vicinanza. All’estremo opposto, nello spazio del museo, si incontra l’immagine nella sua materialità, e l’incontro è sempre normato da una distanza. Negli ultimi mesi, l’impossibilità di accedere a spazi reali, ha risvegliato l’attenzione sulla qualità oggettuale dell’immagine, tema centrale nella pratica artistica di Stefano Arienti (Mantova, 1961), fin dagli anni ’80.
I tuoi lavori partono spesso da immagini preesistenti, che utilizzi come materia prima, sottolineandone il carattere di oggetto e le caratteristiche fisiche. Il gesto artistico modifica l’oggetto di partenza mutandolo in altro. Qual è il rapporto del gesto con l’immagine? E credi che l’opera finita amplifichi o restringa la distanza con l’immagine?
Il gesto, se compare come visibile, serve solo a dare un’energia necessaria all’immagine. La dinamizza in una direzione che la renda meno usuale e, si spera, più pittorica. Non credo di riuscire a modulare la distanza all’immagine. L’opera d’arte è un organismo vivo e reattivo che può essere confidente o ritroso, ma la sua natura non dipende così tanto da me come autore, dipende di più dalla disponibilità e curiosità dello spettatore.
La tua pratica artistica ha dei tratti comuni alla ricerca antropologica, e hai spesso sottolineato l’importanza dell’enciclopedia per il tuo lavoro, così come per la tua formazione di provenienza. Quali sono nella tua esperienza i punti di incontro tra approccio antropologico ed enciclopedico? E a che distanza ti mettono rispetto all’oggetto della tua ricerca?
Sono un povero ignorante che si fida dell’enciclopedia come risorsa per capirci qualcosa del mondo. L’antropologia ci ha aiutatato ulteriormente raccontandoci come reagiamo umanamente al mondo, e spiegandoci i contesti differenti che caratterizzano i fatti del mondo. Mi piace quando un’esperienza diventa un fatto concreto e produce addirittura oggetti in grado di testimoniare qualcosa. Anche opere d’arte.
Oggi la velocità e la sovrabbondanza di immagini porta a riconsiderare il concetto di originalità. È difficile parlare di “nuovo”, se non come una interpretazione differente di quello che già ci circonda. Com’è cambiato nel tempo il tuo rapporto con le immagini?
Mi affido molto di più alle immagini che produco autonomamente, con macchine fotografiche, dispositivi digitali o meccanici, disegni, pitture, ricette di manipolazione manuale… Oggi le mie immagini non le trovo diverse da molte che già mi circondano, non mi interessa che siano originali o nuove, voglio solo che siano vive.
Cinque artisti in mostra, Paolo Meoni (Prato, 1967), Luisa Lambri (Como, 1969), Daniela De Lorenzo (Firenze, 1959), Stefano Arienti (Mantova, 1961), Corrado Sassi (Roma, 1965) approfondiscono in brevi interviste alcuni temi centrali di A distanza ravvicinata: il rapporto con lo spazio, l’abitare, l’intimità, lo sguardo che rivolgiamo all’altro, nelle sue diverse forme.
Paolo Meoni, Unità residenziale di osservazione, 2009, 5’41”
Luisa Lambri, Senza titolo, 1996
Daniela De Lorenzo, Escamotage, 2010
Corrado Sassi, Natale di Roma, 2004
Stefano Arienti, Senza titolo (Ritratto di Federica Cimatti), 1996