Intervista a quattro voci: Carlo e Fabio Ingrassia, Eugenio Tibaldi, Lucrezia Longobardi.
I musei sono chiusi e la riflessione è, per ora, uno strumento importantissimo a cui stiamo ricorrendo. Comprendere il nostro modo di abitare il mondo e le cose del mondo può essere un interessante esercizio per indagare se stessi ed il proprio comportamento. Ho fatto alcune domande a Carlo e Fabio Ingrassia e ad Eugenio Tibaldi per conoscere le loro considerazioni a riguardo.
L.L.: Abbiamo ormai superato il mese di quarantena, e con noi, si è fermato il motore del Paese. Costretti tutti in una frenata brusca stiamo riflettendo – mi sembra un’azione collettiva quella che sta avvenendo – sul nostro impatto sulle cose, sulle modalità d’azione nella nostra quotidianità, sul consumo e la fruizione che esercitiamo. Vi siete interrogati sulla separazione che questo momento storico impone tra opera e spettatore?
C. e F.I.
Diceva Giorgio De Chirico che “Il poeta è paradossalmente meno necessario alla poesia del lettore, così come lo scultore è meno indispensabile alla statua dello spettatore. La statua nasce da un certo sguardo, il poema da un certo silenzio.”
L.L.: Però il silenzio dei musei in questi giorni è un silenzio senza spettatori. E’ un silenzio assoluto. La fruizione si limita a quella che può esercitare chi ha un’opera in casa o a quella di chi scorre le collezioni dei musei nella solitudine dei suoi dispositivi elettronici.
C. e F. I.
Quella dell’opera, attualmente, è la condizione perfetta secondo il nostro parere. In un certo senso, in questo momento storico, non esiste più una fruizione dell’opera in senso lato. Quello che noi, comunque, sempre, ci auguriamo è che il pubblico possa fruire il lavoro in solitudine. La solitudine, che è la sostanza dell’opera d’arte, permette un avvicinamento solitario ed introspettivo. Bisogna essere in fondo soli con se stessi per scoprire qualcosa fuori di se.
L.L.: Stiamo, col tempo, imparando ad interpretare i segni che derivano da questa situazione d’emergenza e il modo che essi hanno di influenzarci.
Che tracce tutto questo sta lasciando nelle tue riflessioni d’artista, nelle note, nei disegni o negli immaginari?
E.T.
Ho vissuto questo periodo, fino ad ora, con delle fasi alterne. Sono partito sicuro, ottimista e menefreghista, per poi divenire responsabile ed impegnato, passare ad isolato e riflessivo e giungere ad ora che sono stanco dubbioso ed un po’ depresso. In ogni fase ho ipotizzato e ragionato su ciò che avrebbe lasciato tutto questo sulla mia personalità e sul mio lavoro. Ad oggi non so rispondere.
L.L.: Però, anche se appesantiti da un certo turbamento, non credi che spetti agli artisti avere comunque un ruolo nella ripresa emotiva del Paese?
E.T.
Da anni orami gli artisti non hanno un ruolo ne’ una funzione. Questa condizione agnostica ha reso, il nostro, il lavoro più complesso del mondo in quanto non ha domande a cui rispondere, ne urgenze da sanare. Per questa ragione se il mondo sentirà l’esigenza di funzionalizzare l’artista in questo momento ne sarò ben lieto, forse per un periodo mi sentirò parte integrante della società.
C. e F. I.
Secondo noi l’arte e gli artisti possono concorrere alla ripresa emotiva attraverso il proprio lavoro. C’è sempre un valore di testimonianza nell’opera, e se c’è valore di testimonianza c’è possibilità di registrazione, di ripetizione, di archiviazione e di idealizzazione; il ricordo del passato e la
previsione dell’avvenire si fondano su abitudini e l’arte è un atto di obbedienza, una ripetizione. Una ripetizione che appaga il desiderio di autenticità, accordando generazioni. Quello che noi immaginiamo è che l’anima chieda sempre le stesse storie per essere sicura che qualcosa durerà. Non solo durerà, ma durerà come singolarità.
L.L.: Questi movimenti di cui mi parlate, mi pare abbiano qualcosa di biologico, di connesso alla natura dell’uomo su cui l’opera d’arte influisce. Nella breve riflessione che ho pubblicato circa il senso della nostra mostra in questo momento particolare, parlo dell’opera e dell’azione di contagio, culturale ed estetico, di cui è portatrice. Questa associazione dell’arte come virus, portatore di inquietudini ed estasi, è condivisa da voi artisti?
E.T.
In linea di massima concordo, vi sono delle similitudini con il virus, i valori che si possono rivedere nelle riflessioni proposte dalle opere sono adattivi e mutevoli per cui potrebbero in teoria invadere il mondo e contagiare l’intera popolazione. La realtà è che l’arte è molto meno virulenta, si spegne rapidamente soffocata dal poco approfondimento, dalla tempesta di immagini e di informazioni della contemporaneità. La nicchia, praticante, del mondo dell’arte ama essere autoreferenziale ed esclusiva per cui la diffusione pandemica del verbo artistico temo che non sarà mai massificata.
L.L.: Rispetto a questo, Notturno con figura è una mostra che parla della dimensione più intima dell’abitare il proprio spazio esistenziale. In questi giorni di isolamento com’è cambiato il vostro rapporto intimo con l’ambiente, sia esso interno che esterno?
C. e F. I.
Nonostante le ultime vicende che stanno segnando drammaticamente la nostra epoca, noi continuiamo a svolgere la nostra attività da soli con noi stessi, nel più assoluto silenzio. Potremmo dire di essere perennemente educati alla quarantena, alla perfetta monotonia, ad un ritmo del tempo che continua immutato, uniforme. Una forma di simpatia che è alla base dei sentimenti durevoli, degli istanti ripetuti con regolarità, questa è la nostra condizione di vivere il lavoro; la cosiddetta «ora d’aria» è un atteggiamento educativo che facciamo con noi stessi. L’idea di interno ed esterno è una condizione dell’uomo psicologicamente spiegabile ma non giustificabile logicamente, dicevano poeti antichi “quando dormiamo qui stiamo svegli da un’altra parte” e noi risediamo un po’ nell’uno e po’ nell’altro.
E.T.
Da sempre nella mia ricerca lo spazio è fondamentale, non tanto come concetto in se, quanto come contenitore di tracce, narratore per eccellenza delle esistenze. In questi giorni vivo la limitazione del mio spazio un po’ come vivo il divieto di fumare negli aeroporti: mi scatena una necessità di nicotina senza eguali.
L.L.: Qualche giorno fa sono inciampata, quasi per caso, in un vecchio discorso di Benigni, in cui si rivolgeva al Presidente Mattarella durante la cerimonia di consegna del David di Donatello di qualche anno fa. Il comico affermava che essendo il 2000 il secolo del corpo, in cui abbiamo dato attenzione solo agli aspetti corporali, alla cucina, all’estetica spicciola della body sculpture, dovremmo fermarci un attimo per permettere alle nostre anime di raggiungerci. E’ forse in questo momento che possiamo compiere questo esercizio?
E.T.
Si, credo sia utile. Necessario non saprei. La necessità è una definizione personale troppo ambigua e difficile da generalizzare. La maggior parte delle persone che conosco ritiene necessarie cose per me completamente inutili e viceversa.
Ritengo però che questo rallentare per farsi raggiungere dall’anima possa essere utile, proprio rispetto alla funzione che la spiritualità può avere nella ridefinizione delle “necessità” una volta che tutto questo sarà terminato.
L.L.: E per voi, gemelli Ingrassia, tutto questo ha un senso? Questo rapporto intimo tra anima e corpo è qualcosa che va ricalibrato anche per gli artisti?
C. e F. I.
Non ci siamo mai preoccupati di pensare alla nostra anima, ci poniamo la questione sulla presenza materiale dell’opera nel suo darsi come fatto concreto, come corpo.
L.L.: In che senso?
C. e F.I.
L’opera a nostro avviso non è mai intima; è sempre stato un falso mito parlare di intimità dell’opera. Essa si porta fuori, in un immagine pro-gettata, in un atto di responsabilità. Il compito di noi artisti rimane quello di mettere l’opera a registro, organizzare le immagini mentali predisposte. Disporsi all’opera anche in maniera fisica è stato da sempre un nostro esercizio, non abbiamo mai aspettato che l’illuminazione ci aprisse la strada, perché alcuni fatti sono degli atti che devono cominciare nell’assoluto dal lavoro. L’im-pegno, come dice la parola, è un pegno al lavoro ed alla vita.
L.L.: E da questa dimensione strettamente fisica, dunque, l’artista dove trae la propria ispirazione?
C. e F.I.
L’artista dà forma al giorno, all’ora, al minuto; quanto più il pretesto è limitato e condizionato nel tempo, tanto più la sua opera cresce e tanto più si allontana dal suo pretesto.
L.L.: Attraverso i canali digitali stiamo assistendo ad una nuova modalità di divulgazione culturale che fino ad oggi avevamo considerato secondaria. La quantità di materiali sovrabbonda e riesce difficile star dietro a tutti gli account dei professionisti dell’arte e dei musei. Cosa pensate di questa espansione della fruizione? Uno schermo potrà mai sostituire i nostri occhi, l’impatto fisico e il gradiente emozionale dell’attraversamento di un opera?
E.T.
Anche in questo caso il mio approccio è variato nell’arco di questa quarantena. Sono partito carico di entusiasmo, mi pareva di intravedere una possibile apertura al mondo, segnali della voglia di confronto da parte degli operatori del settore, a partire dagli artisti. Con il passare dei giorni si è un po’ tutto liquefatto. Temo che l’arte abbia bisogno di tempi diversi rispetto alla satira, all’illustrazione ed al giornalismo ed anche quelle che possono sembrare intuizioni geniali, in questo vortice, durano poco più che qualche ora.
C. e F.I.
Questo panorama di cui state parlando forse è figlio della crisi di quella che potremmo definire “attenzione primaria”, che dava ad ogni strumento di conoscenza la giusta funzionalità e il giusto grado di approfondimento. Le informazioni che veicoliamo o che cerchiamo sono materiali di consumo rapidi, su strumenti social invece che strumenti di conoscenza. Ciò genera un’attenzione “secondaria” e un sistema circolare chiuso in cui l’informazione soddisfa l’informazione. E’ nato una nuova generazione di uomo, più istintivo, meno emozionale, un uomo nuovo, antropologicamente diverso.
Viviamo in un tempo troppo pieno di linguaggi in cui manca la pausa.
L.L.: In questi giorni avrai però trovato qualche segnale interessante?
E.T.
In questi giorni mi sono interessato alle opinioni di chi sta immaginando un post pandemia per il sistema culturale, spero che vada in una direzione che possa aggiungere qualcosa di importante. Forse è vero che non ci saranno per un po’ le grandi inaugurazioni, potrebbero essere sostituite da visite alle mostre di piccoli gruppi, con un dialogo diretto con l’artista, con il curatore o con il gallerista. Incontri in grado di attivare un percorso conoscitivo più profondo e completo che potrebbe vedere nel web la parte dell’organizzazione e del “trailer” ma non certo quella dello show.
L.L.: Questa prospettiva di un percorso più complesso e strutturato all’arte sembra interessante, effettivamente, ed anche ricco di potenzialità. Per cui a questo punto vorrei continuare ad immaginare con voi come sarà il domani di questo presente sospeso…
E.T.
Spero che sia una sorta di rinascita. Spero che questi giorni abbiano aiutato le persone ad identificare meglio la società che desiderano in modo profondo e a trasformare la rabbia e la costrizione in energia attiva da applicare alla costruzione di questo nuovo assetto.
Lo desidero in primo luogo per me, guardarmi dentro seriamente non è stato semplice e le cose da cambiare sono molte avrò bisogno di energie nuove e possibilmente di compagni di viaggio.
C e F. I.
Nella tua domanda ci chiedi “il come” del mondo di domani. Noi stiamo già riflettendo alla domanda successiva, ossia il “perché”.
A nostro avviso l’arte non ha nulla a che fare con il pubblico o con il sociale, ma con il qui e l’altrove. D’altronde perché considerarla bene comune? Lo stesso termine comune non riguarda il rapporto con l’altro. Il rapporto con l’altro deve darsi come interruzione ‘comune cioè come-uno’. Bisogna pensare alla requisitoria di André Gide quando dice: “Non sono della famiglia’, non prendetemi come uno dei vostri”.