L’altra modernità
Qualche nota sulle Piazze d’Italia di Giorgio de Chirico
di Nicola Di Battista
È strano, ma devo dirlo: ho iniziato a scrivere questo testo qualche mese fa, in piena pandemia, purtroppo senza nessun successo. Niente mi sembrava andare bene degli appunti che, a mano a mano, andavo prendendo. Tutto mi appariva banale e poco significativo rispetto al tempo che vivevo, mentre continuava, ossessivamente, a tornarmi in mente un pensiero di Bertolt Brecht, dal titolo Il momento. In questo piccolo testo scritto alla fine degli anni Trenta, all’inizio della Seconda guerra mondiale, Brecht dice: “E in definitiva, per proporre al giudizio una determinata azione, bisogna anche riferire in quale momento essa sia stata compiuta. Mettersi ad attaccare certi quadri sulle pareti interne di una nave può essere un’azione completamente folle se la si compie nel momento in cui la nave ha già cominciato a colare a picco, cosa questa che può verificarsi quando scoppia una guerra navale. Per portare avanti tale metafora, noi di fatto troviamo alcuni artisti che continuano ad occuparsi di ideare ed eseguire quadri anche nel momento stesso in cui si sta andando a fondo”.
Ecco in questi ultimi mesi qualsiasi intrapresa cominciassi non andava a buon fine, il momento vissuto, certamente inconsueto e per molti versi deviante, ci ha prepotentemente spinti fuori dalla normale traiettoria della vita, riempiendoci di interrogativi legati alla vita stessa, al punto da non lasciare in noi nessuna volontà di ideare ed eseguire alcuna azione che si ponesse al di fuori della necessità imposta dal momento stesso; la nave che affondava assorbiva totalmente i miei pensieri e non lasciava spazio per altro.
Avevo molta voglia di scrivere sui famosi dipinti, Piazze d’Italia di de Chirico. D’improvviso, però, quello che mi era sembrato un buon tema di riflessione, alla mia portata e vicino ai miei interessi e alle mie conoscenze – parlare di città, anzi per meglio dire, parlare della ‘forma’ della città – di colpo mi diventa impossibile da realizzare, al punto da sentirmi completamente inadeguato al compito.
Una situazione davvero paradossale, dovuta anche al fatto che, settimana dopo settimana, commenti e testi redatti da valenti critici, architetti, filosofi e altri ancora, venivano pubblicati sull’argomento e io, anziché scrivere il mio contributo, mi trovavo più a mio agio nei panni del lettore interessato e attento.
Da quel momento è passato del tempo e, oggi, quei mesi, un po’ sospesi e tristi, sono ormai lontani. Per questa ragione ho provato di nuovo e con rinnovata volontà ad affrontare il tema, ma non sarò certo io ad addentrarmi in discorsi critici o interpretativi che queste opere meritano, mi limiterò invece a dire due o tre cose intorno a questi lavori di Giorgio de Chirico, che non mi sembrano essere state ancora dette.
Per prima cosa mi sono chiesto, da architetto, e in più da architetto italiano, cosa avessero questi dipinti di così straordinario da diventare delle vere e proprie icone dei tempi moderni, capaci di cogliere ed esprimere al massimo grado una certa idea di italianità e, per così dire, riuscire a proporne addirittura una sua identità.
Bisogna dire che la forza evocativa che, da sempre, questi lavori di de Chirico hanno saputo manifestare, risulta oggi notevolmente amplificata dalle funeste condizioni del mondo attuale. Eppure al di là di questo, o forse prima di questo, essi restano comunque la migliore trasfigurazione pittorica moderna che conosciamo del patrimonio architettonico accumulato dal nostro Paese; una trasfigurazione che ha come oggetto il nostro paesaggio costruito, le nostre città, le nostre tante città.
Non troviamo metropoli, in questi dipinti – metropoli che peraltro non abbiamo – ma semplicemente città: città fatte di case e di monumenti, città medie e piccole che da sempre hanno costituito, e ancora lo fanno, la spina dorsale che struttura il nostro intero territorio nazionale.
In tanti hanno cercato di descrivere e raccontare i luoghi del nostro Paese: scrittori, poeti, storici, cineasti, architetti, artisti, con risultati il più delle volte ottimi e davvero esemplari, ma questi dipinti di de Chirico – realizzati con fissità nell’arco di diversi decenni del secolo scorso – sono diventati le forme più compiute, esatte e definitive della nostra modernità, anzi per meglio dire della nostra particolare modernità: quella realizzata dal nostro Paese nella costruzione dei luoghi. Una modernità meno determinista e pura di quella di altri paesi europei come, ad esempio, quella tedesca o olandese, ma al contrario direi più contaminata con il passato, senza mai però rinunciare al nuovo, anzi cercando sempre un nuovo che proprio da questo passato prendesse ispirazione e senso.
L’artista per raccontare le sue Piazze d’Italia usa pochi elementi e sempre gli stessi: semplici case e alcuni monumenti, con l’aggiunta, volta per volta, di muri, di treni, di rare persone, di qualche paesaggio montano lontano, di cieli il più delle volte non azzurri, di vere e proprie sculture, e poi, di ombre, di tante ombre. Lo spazio pubblico è definito principalmente dalle case e dalle lunghe ombre che esse portano sul suolo, ombre che suggeriscono o forse evocano innanzi tutto l’abitabilità della piazza, anche quando le persone non ci sono. Sono però sempre le case le vere protagoniste delle sue piazze, case che con le loro forme e la loro posizione ne definiscono lo spazio, lo delimitano, lo conformano e che alla fine rendono queste piazze uniche, una diversa dall’altra; per questo conviene aggiungere qualche considerazione su di esse e sulle loro forme.
Sono case modeste, alte solo due piani, con un piano terra sempre porticato e con portici esageratamente alti, rispetto alle proporzioni della casa e con un piano superiore finestrato, con finestre quasi sempre quadrate e schermate da persiane. Chiaramente de Chirico non dipinge le piazze italiane reali, quelle edificate, ma propone con i suoi dipinti una idea precisa di esse, ne riconosce alcuni elementi tipici e li trasfigura in un insieme capace di esprimere l’essenza e la forma stessa di questi spazi pubblici. Nessuna ideologia modernista gli impedisce di utilizzare ereticamente portici che finiscono sempre con archi a tutto sesto, o di chiudere le finestre con delle persiane in legno, o ancora di far diventare monumenti ciminiere e torri varie; ma neanche nessuna nostalgia per un passato che non c’è più, tanto da usare per le sue case muri spogli e semplicemente intonacati, senza nessuna decorazione, o ancora di disegnare dei cornicioni che servono solo a finire la facciata verso l’alto, nel rapporto con il cielo, e non certo per riparare la casa dalle intemperie. Eppure queste piazze, che non sono indulgenti né verso il moderno, né verso il passato, li evocano entrambi immaginando e realizzando, nell’insieme, spazi nuovi, liberi e vuoti che aspettano solo di riempirsi di abitanti. In definitiva questi lavori alludono a una modernità altra, fuori del tempo, fatta di passato, di presente e soprattutto di futuro e la esprimono con forme nuove, mai viste prima.
La forzata immobilità a cui l’attuale pandemia ci ha costretti, potrebbe suggerirci facili suggestioni e analogie con quanto de Chirico ha dipinto nelle sue mirabili Piazze d’Italia, ma in questa maniera saremmo portati fuori strada, saremmo appunto suggestionati e noi non siamo in cerca di suggestioni, non lo eravamo prima e non lo siamo a maggior ragione adesso.
Devo anche dire a questo punto, che forse la mia reticenza a scrivere di questi lavori, proprio oggi, è dipesa probabilmente da questo indotto parallelismo tra il dramma abbattutosi sul mondo intero e il nesso diretto proposto con queste immagini di città. Per quanto mi riguarda invece ho sempre visto, e continuo a vedere, questi lavori come una sapiente, una mirabile, una meravigliosa sintesi che la disciplina pittorica ha saputo compiere dei nostri paesaggi urbani. Questi dipinti, in maniera davvero magistrale – e meglio di tanti saggi storici o critici, di analisi e studi urbani – sono riusciti a rappresentare in forma compiuta una certa idea di città italiana, fissando in un solo momento e per sempre, l’essenza, la forza, la specificità che differenzia le nostre città e le sue piazze da tutte le altre.
Non è un caso che questi lavori inizino a essere realizzati proprio ai prodromi dell’epoca moderna, negli anni Dieci del secolo scorso, quando gli artisti, tutti, guardavano piuttosto le metropoli e non le città: le nuove metropoli che stavano cambiando il mondo con le loro forme e i loro grattacieli, dove il movimento, la velocità, l’immensità, diventavano i principali protagonisti di una visione del futuro che il XX secolo proponeva in maniera dirompente, dalla vecchia Europa fino alla nuova America.
De Chirico, per contro, non sembra interessato a questi nuovi paesaggi e sceglie un tema diverso da opporre a quanto accadeva intorno a sé, un tema capace di rappresentare il proprio tempo e il proprio fare, un tema a cui dà un nome preciso, definitivo e senza equivoci: Piazze d’Italia.
I tanti altri titoli, peraltro bellissimi, che prenderanno i lavori da lui realizzati sul medesimo tema, dobbiamo leggerli sempre come sottotitoli subordinati al titolo principale, molte volte non espresso, ma sempre presente, quello famoso di Piazze d’Italia.
La scelta del tema credo sia davvero fondamentale per capire meglio questi suoi lavori; in essi de Chirico decide di non occuparsi di metropoli, ma di parlare di città e in particolare delle città italiane, anzi delle piazze delle città italiane. Il tema però, nel suo caso, non resta generico, ma diviene puntuale e preciso: decide così di parlare solo della loro forma, o per meglio dire della forma che lui vedeva, della forma che lui voleva. Occupandosi della forma delle città italiane e facendolo con l’intensità che la sua arte pittorica gli consentiva di fare, è riuscito a vedere per primo quello che gli altri in quel momento non vedevano ancora.
Se le forme delle Piazze d’Italia, al loro primo apparire, esprimevano chiaramente solo i sentimenti e le preferenze personali di chi le dipingeva, a mano a mano, diventeranno talmente convincenti e forti da rappresentare anche stati d’animo e intenzioni collettive di tanti altri. Proprio per questo motivo hanno continuato ad affascinare e attirare su di esse l’attenzione di diverse generazioni nel tempo, fino ad arrivare, dopo un intero secolo, ai nostri giorni senza perdere niente della loro forza, anzi se possibile aumentandola, resistendo così anche al tempo attuale.