Massimo Mininni: Le collezioni della Galleria Nazionale, inaccessibili in questo preciso momento storico, a causa della chiusura per l’emergenza Coronavirus, sono diventate un bene nascosto e prezioso ma fruibili solo in rete. Secondo te quale potrebbe essere il nuovo compito di un museo?
Lucrezia Longobardi: Ho sempre pensato al museo come un amplificatore culturale ed uno strumento per mantenere vivo lo spirito critico di una società. A questo punto della storia potremmo intendere la struttura museale come un corpo vivo che cambia modalità d’approccio. Se normalmente il suo movimento concavo è un atto fisico di accoglienza nei confronti del pubblico, in un momento in cui le relazioni devono avvenire ad un metro e ottanta centimetri di distanza, anche il museo si deve contrarre per poter uscire da se stesso e plasmarsi nella forma più idonea. Essendo – il museo- il luogo fisico in cui si conserva la nostra storia e la nostra arte, credo che ora, più che mai, esso debba occuparsi della scrittura di queste pagine di critica contemporanea, disponendosi come piano di discussione per intellettuali e filosofi, commissionando loro riflessioni e veicolandole al grande pubblico.
M.M.: La mostra da te curata, in cui hai invitato ad esporre i gemelli Ingrassia e Eugenio Tibaldi, non è più visibile, ma è custodita in questo momento nelle sale della Galleria Nazionale. La sua nuova visibilità, nelle varie piattaforme digitali che la Galleria Nazionale sta progettando, sarà in grado di restituire le modalità per cui era stata pensata?
L.L.: Sicuramente il dispositivo di connessione tra opere che ho generato, come ho specificato nel testo Notturno (..) nelle nostre case, rimane in attesa. Ce lo siamo tutti portati un po’ a casa dopo averlo visitato. Ma per la peculiarità del lavoro devo purtroppo dirmi scettica sulle possibilità di restituzione virtuali per via dell’impianto esperienziale del progetto. Ci sono elementi che tramite le piattaforme non possono essere veicolati, mi riferisco all’odore del legno fresco che si fonde con il vino, all’attenzione da dare alla spazialità dell’opera, al gradiente di colore della luce che, minuto per minuto, al tramonto, trasforma completamente l’attraversamento; ma soprattutto è la vibrazione del lavoro a non poter essere trasformata in nient’altro.
M.M.: Alla luce di queste nuove forme di godimento, affidate a tecniche e strumenti digitali in grado di realizzare una relazione virtuale tra l’ambiente fisico e quello immateriale, avresti pensato una mostra diversa, comprensibile, non più ad un ‘visitatore’ in situ, ma ad un ‘utente’ in rete?
L.L.: Categoricamente avrei dovuto pensare ad un lavoro diverso, non più registrato sulle direttive dello spazio e della sua sensibilità, ma probabilmente in accordo con le modalità di fruizione dei social, dando importanza ad un linguaggio informatico e non più esperienziale.