In attesa delle arti
di Franco Purini
L’attuale deserto urbano, una necessaria conseguenza delle misure decise dalle autorità per il contenimento della pandemia in corso da qualche mese, ha messo in evidenza due aspetti opposti della città. Il primo riguarda lo spazio pubblico, ridotto da sistema di luoghi comunitari ad un ambito performativo, il palcoscenico di un consumismo sempre più esteso e pervasivo di rituali tendenti ad una progressiva affermazione mediatica di vari e diversi ceti sociali. Un fine perseguito da coloro che vogliono guadagnare una visibilità tanto gratificante quanto illusoria. Il secondo aspetto che il deserto urbano ha reso evidente è il venire a mancare nei cittadini, costretti all’orizzonte limitato della loro casa, la convinzione che l’agire urbano sia un esercizio che consente all’individuo di dimostrare la propria capacità di orientare il proprio futuro mettendo in atto il progetto di vita che si è scelto. Il deserto urbano annulla questa certezza, creando sensazioni di isolamento, disagio, disorientamento. In un certo senso la città si dissolve, si allontana, si fa incerta e precaria. L’abitare sembra fuori centro, estraneo e lontano. C’è da aggiungere che questa virtuale scomparsa della città dalla vita dei suoi abitanti rende comunque più forte l’essenza molteplice della città stessa, il suo essere attraversata e segnata da altre realtà insediative in un sovrapporsi di genealogie, di memorie, di analogie. La narrazione quotidiana che la città in cui si vive offre ogni giorno rende, quando se ne sta fuori, l’insieme delle affinità morfologiche e architettoniche con altri centri urbani ancora più diretto e avvertibile. Infine esistono i social, che per inciso chi scrive non ha mai frequentato, ma in essi sono assenti i corpi, sostituiti da moltitudini di apparizioni immateriali ed effimere.
I due aspetti opposti sinteticamente descritti non si elidono ma si sommano finendo con il sottrarre alle città il suo essere “la cosa umana per eccellenza”, la definizione che ne ha dato Claude Lévi- Strauss. L’insediamento urbano non è più tale ma un ambiente impraticabile e pericoloso, la cui stessa conoscenza, che prima si possedeva, sembra volersi annullare.
Giorgio de Chirico, Presente e passato, 1936
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
La condizione di emergenza in cui si vive oggi viene raccontata da telegiornali e quotidiani, ma soprattutto nelle strade e nelle piazze vuote essa si fa rappresentazione esemplare e duratura di questo momento più che difficile. Un momento che rinvia a storie famose e a un vasto repertorio di immagini. Dalle città ideali delle Tavole di Urbino, Baltimora, Berlino, alle incisioni di Giovan Batista Piranesi; dalle Piazze d’Italia di Giorgio De Chirico e dal Cretto di Alberto Burri a Gibellina alle fotografie di Luigi Ghirri, Gabriele Basilico, Joel Meyrowitz i paesaggi urbani si fanno vuoti, silenziosi, immobili, fuori dal tempo, tanto indecifrabili quanto chiari e semplici nelle loro geometrie. A queste opere, in particolare a quelle dell’inventore della Metafisica, quadri dalle prospettive dettate da una logica ermetica, il deserto urbano di questi giorni aggiunge un ulteriore mistero, questa volta non riguardante più la sfera del mito e la scoperta di un nuovo significato del vedere. Prossimità e distanze si alterano negli spazi vuoti, mentre la luce trae da essi elementi in altre situazioni non prive di risalto. Ambienti consueti frequentati da anni mostrano così un’inaspettata identità, ma suscitano anche domande su di essi alle quali non si sa rispondere. Non è forse errato pensare che la scomparsa della comunità dalle strade e dalle piazze segni una crisi molto più che strutturale della globalizzazione e delle città che essa ha radicalmente modificato. Una crisi ancora da comprendere, che forse le arti, più che l’economia o qualsiasi altro sapere, possono aiutare a rivelare nelle sue cause e nelle sue possibili soluzioni.