De Chirichiana: frammenti dell’interno dell’esterno dell’interno
di Massimo Maiorino
Il meccanismo del pensiero
In questi giorni senza giorni di estenuante vita d’interno, il caso ha voluto – Leonardo Sinisgalli, poeta e matematico, avrebbe detto che niente avviene per caso – che si siano allineate sul mio piano di lavoro, trasformato in diario di quarantena, i segni e le tracce di letture disordinate e contraddittorie, souvenir di tour immaginari in un tempo stratificato e sospeso. Passeggiate nel pensiero che celebrano lo spazio interiore come giardino dell’esistenza, le cui traiettorie disegnano l’inquietante condizione di queste settimane. A prendere forma sotto i miei occhi, nella rete misteriosa di corrispondenze, è L’enigma dell’ora (1911), geometrica e perturbante apparizione che «nasce dal coincidere dell’ignoto con il vuoto di senso»[i]. Visione del nulla, premonizione di un tempo sospeso, l’opera di de Chirico annuncia quanto appena qualche anno dopo, nel 1916, il pittore scriverà all’amico poeta Apollinaire: «Il tempo non esiste e sulla grande curva dell’eternità il passato è uguale all’avvenire»[ii].
Giorgio de Chirico, Presente e Passato, 1936
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Piazze d’Italia
Come un mare, così Fabio Mauri vede Piazza del Popolo, «battuta dai venti e dalla luce. I tavolini del Caffè Rosati avvitati al suolo. Le tovagliette instabili come gonne tenute a freno da tazze e bicchieri […] e gli avventori, nel tempo un po’ famosi, più che famosi noti, […] un’onda multipla di facce infusa di quel malumore universale che urta contro l’autorità lisa dei Camerieri, sproporzionata, sul mandarino alla menta e sulle sorti di giovani dominati da una passione»[iii]. Così la immagino io, seduto alla scrivania nel silenzio del mio studio, quasi ne assaporo il vento che scende da Villa Borghese, ne sento il profumo mentre resto immobilizzato alla luce bianchissima che filtra dall’esterno di un presente irriconoscibile. Diviso tra Presente e passato (1936) guardo l’orizzonte di treni sbuffanti e ciminiere – una «lontananza aperta alla misura»[iv] -, ed in attesa, come la statua che abita questo supremo anacronismo, annodo il mio tempo al desiderio smisurato di futuro.
Piazza del Popolo dal Pincio
Anton Giulio Onofri X Roma città chiusa
La forma della città
Rivedendo di sera, nel silenzio della casa, del quartiere, della città, Uccellacci e uccellini (1966), mi ha colpito il vuoto vagare di Totò e Ninetto in uno spazio che è preistoria e post-storia, mentre risuona un terribile interrogativo: «dove va l’umanità?Boh!». Nell’immensa periferia romana, lungo le strade di polvere e di utopia, si manifesta la scomparsa di una civiltà millenaria e si consuma nel rapporto con il passato la tragica erosione dei contorni della città. Sotto il sole faticoso della miseria si scorgono in lontananza la cupola di San Pietro e Paolo ed il Palazzo della Civiltà Italiana, muti presagi metafisici che, come scrisse Soffici pensando a de Chirico, «per mezzo di fughe quasi infinite d’archi e facciate, di grandi linee dritte; di masse immani di colori semplici, di chiari e di scuri quasi funerei, [arrivano] ad esprimere, infatti quel senso di vastità, di solitudine, d’immobilità di stasi che producono talvolta alcuni spettacoli riflessi allo stato di ricordo nella nostra anima, quasi addormentata»[v].
Set di Uccellacci e uccellini (Pier Paolo Pasolini, 1966)
Sentimento africano
Desiderio di evasione ed insieme di registrazione, desiderio di un altrove, ma «quale meraviglia se il viaggio più lungo è quello che percorro ogni giorno tagliando in diagonale la [mia] camera, se lo spessore della [mia] esistenza è, né più né meno, lo spessore di una velina del calendario?»[vi]. Ma sono le scie delle parole ad attrarmi in fughe acrobatiche, a farmi muovere ad occhi aperti nel buio seguendo i sentieri di Arthur Rimbaud e Joseph Conrad, di Antonin Artaud e Michel Leiris, di Ernst Jünger e André Gide, di Henri Michaux e Céline. Sono questi i nomi splendenti ed inquieti della costellazione che illumina il periplo di questa mia fuga, sono loro i voyageurs di una geografia fantasma, protesi verso un autre monde, prospettico e necessario miraggio carico di «fresco vento notturno e di buon odore d’Africa, felice»[vii].
Da così lontano mi sorprende, ancora una volta, la meditazione del pictor optimus: «Sentimento africano. L’arcata è qui per sempre. Ombra da destra a sinistra, soffio fresco che fa dimenticare – cade come una foglia enorme proiettata. Ma la sua bellezza è linea: enigma della fatalità, simbolo della volontà intransigente. Tempi antichi, bagliori e tenebre. Tutti gli dèi sono morti. L’appello la sera sul limitare del bosco: una città, una piazza, un porto, dei portici, dei giardini: festa della sera; tristezza. Nulla»[viii].
Giorgio de Chirico, Canto d’amore, 1914
MoMA, New York
Canto d’amore (I tempi felici arriveranno presto)
Secondo Maurizio Calvesi «nel personaggio Hebdòmeros va riconosciuto lo stesso de Chirico, che in tal modo si identifica con Apollo […]. Il nome, del resto, è una trasparente allusione. Le ‘Ebdomee’ (Ebdomaia) erano feste che presso i Greci si tenevano il settimo giorno del mese per celebrare la nascita di Apollo Ebdomeios»[ix].
Un’identificazione dell’artista con Apollo già annunciata nel celebre dipinto Canto d’amore (1914) che identifica le sue idee con il metodo di Nietzsche e scioglie la natura enigmatica delle cose in un Sì alla vita, nell’incontro tra due eternità, passato e futuro, che diventa canto della durata.
Il canto della durata è una poesia d’amore.
Parla di un amore al primo sguardo
seguito da numerosi altri primi sguardi.
E questo amore
ha la sua durata non in qualche atto,
ma piuttosto in un prima e in un dopo,
dove per il diverso senso del tempo di quando si ama,
il prima era anche un dopo
e il dopo anche un prima[x].