Due brani letterari, tra i tanti che ho scorso o compulsato in questi mesi, accompagnano e accompagneranno retrospettivamente la mia esperienza del lockdown – in particolare del terribile marzo 2020, quando la gentile stellata fioritura degli alberi lungo i viali della città si è unita al suono delle sirene. Due brani che esprimono bene, a mio avviso, il tratto più singolare del lockdown, quale si è rivelato quantomeno a me, che sino ad oggi non sono stato colpito dal contagio: l’ambivalenza.
Il primo brano è di Shakespeare. Voglio riferirmi qui al momento in cui Macbeth, che già si è proposto di uccidere il buon re Duncan, prevede gli effetti di questo suo empio gesto. Lo sconcertano il dolore, lo sdegno che la morte del re solleverà in tutto il popolo di Scozia. La pietà, geme Macbeth, sarà in tal caso simile a un bimbo appena nato che «cavalchi nudo nel fragore della tempesta». Tutti noi, in questo periodo, siamo stati quel bimbo appena nato; e la pietà ha urlato in nostro favore. Non tanto perché siamo stati, e siamo tuttora, in pericolo. Ma perché siamo dovuti sopravvivere in mezzo a tante morti: obbligati a essere testimoni adeguati del dolore altrui e al tempo stesso a prenderci cura di noi e dei nostri cari.
Tra i tanti ruoli che interpreto nella mia vita, nessuno, in questa primavera pandemica, ha avuto per me più importanza del ruolo di padre. Dico “ruolo”: ma ammetto che qui non c’è finzione, e competenze apprese, dissimulazioni o cerimoniali non hanno alcuna validità o efficacia. Dal primo giorno in cui l’Italia si è trovata costretta in quarantena, agli inizi di marzo, quando scuole e università sono state chiuse, la mia routine domestica è completamente cambiata. Smartworking, certo, per me che faccio ricerco e insegno in università. Ma soprattutto il compito di intrattenere e motivare due bambine piccole rimaste improvvisamente prive di maestre, nonni e indulgenti baby sitter. Nel giro di qualche giorno la scuola a distanza ha sostituito, per la più grande, di nove anni appena compiuti, le lezioni in aula, i giochi con i coetanei e il contatto quotidiano con la maestra. Ma la più piccola, di appena due anni e mezzo? Ben presto mia moglie e io abbiamo percepito la sua difficoltà. Fiotti di lacrime a sera, collera e un umore insolitamente mutevole durante il giorno, digiuni prolungati, stipsi. La compagnia di soli adulti, era evidente, e il confronto con le nostre “abilità” risultavano penosi per una bambina in età prescolare. Come alleviare i suoi sensi di inadeguatezza e proteggerla contro i rischi anche futuri di una stagione sventuratamente regressiva, oscillante tra gli estremi della collera e del ritiro di interesse? Non potevamo permettere che la dipendenza da cartoni animati distruggesse la sua vivacità.
Preoccupazioni già deste in me da tempo, da quando erano circolate le prime notizie sull’epidemia in corso a Wuhan – come procurare a tutta la mia famiglia mascherine efficienti, gel igienizzanti, guanti etc.; come orientarmi nella jungla dell’acquisto online di DPI? – si intrecciavano adesso a difficoltà nuove e inattese. E cioè: come trasformare la casa e il piccolo giardino in un amabile Kindergarten? Dai primi giorni di lockdown, scivoli 0-3, sabbiere, salterelli, piscine gonfiabili, palle colorate, cesti da basket in miniatura, costruzioni e bolle di sapone di ogni ordine e grandezza, balle di semi, terra e concime e germogli di verdure per l’orto hanno iniziato a affollarsi davanti alla porta. E’ qui, tra matite colorate sparse a terra in ogni stanza e pastelli dimezzati misti a pezzi di biscotto e ciliegie, che la mia vita ha iniziato a cambiare. Che sono uscito dal mio ruolo più pubblico e professionale, per così dire. E mi sono improvvisato funambolo, carpentiere, giardiniere. L’ho fatto di buona lena e con sbrigativa facilità: sotto l’impulso dei pianti disperati di Melusina. Niente più dotti articoli disseminati di note a pie’ di pagina, per un po’. Al più qualche videoconferenza. Ovviamente le lezioni a distanza con gli studenti. Ma soprattutto cacciaviti, martelli, vanghe, zappe, trapano, compressori, chiavi inglesi, zanzariere, rastrelli, gazebo e la mia quota di lavori domestici. In più ore e ore di attesa dal fruttivendolo (frutti di bosco! frutti di bosco per Melusina!) o dal macellaio (in questo periodo, per incoraggiare le piccole a nutrirsi, abbiamo ripreso a consumare carne rossa e bianca, con moderazione). Per bibliografia né saggi né monografie fresche di stampa, ma le disparate e umorali «recensioni clienti» di cui sono costellate le pagine Amazon di «oggetti per la casa».
Tutto questo può sembrare scherzoso: e in parte, lo ammetto, suscitare l’atmosfera del gioco è stato per me, per lunghe settimane, un obbligo cui non mi sono sottratto, spesso con tutt’altri sentimenti nel cuore. Ma non vorrei in nessun modo essere frainteso, o sembrare irrispettoso, al contrario. Confortare le piccole mi è sembrato in questo periodo un modo singolarmente appropriato di condivisione e raccoglimento per chi, come me, si è trovato nella condizione, certo fortunata, di poterlo fare; mentre altri morivano da soli nei reparti di terapia intensiva o si prodigavano per aiutare.
Qui entra in gioco la seconda citazione, che traggo dal bellissimo e mercuriale Viaggio nello Harz di Heinrich Heine. «Per quanto immobile e tranquilla possa apparire la vita di questa gente», osserva Heine a proposito dei contadini dello Harz, una catena montuosa della Germania settentrionale, «essa è tuttavia una vita autentica e viva. La vecchietta decrepita e tremante che siede dietro la stufa, di fronte al grande armadio, avrà passato lì seduta un quarto di secolo, e i suoi pensieri e i suoi sentimenti sono cresciuti legandosi intimamente agli angoli della stufa e agli intagli dell’armadio. E l’armadio e la stufa sono vivi perché un essere umano ha infuso in loro una parte della sua anima». Nessuno più girovago di Heine, che trascorre buona parte della vita a Parigi. E tuttavia questo suo elogio della «domesticità», che non sarebbe spiaciuto a una geografa come Doreen Massey, tocca corde che hanno vibrato anche in noi lungo tutte queste settimane. O così almeno può sembrare. Abbiamo cercato di sopravvivere, e di farlo al meglio, per noi e (forse soprattutto) per i nostri cari. Abbiamo rimodulato consuetudini e comfort domestici. Ci siamo trasformati per un po’ nella «vecchietta» dello Harz; o, se il paragone appare azzardato, quantomeno nei candidi alberi lungo il viale. Rinnovando ragioni di appartenenza e responsabilità – alla piccola cerchia, al vicinato, alle generazioni future, alla collettività – che credevamo forse perdute.
Michele Dantini