Cosa succede in città
di Francesca Palmieri
Tutti i brani in corsivo grassetto sono estratti da testi di Italo Calvino, in particolare da: Dall’opaco (1971), Le città invisibili (1972), Accanto a una mostra (1983), Viaggio nelle città di de Chirico (1985).
Se in questo tempo le Piazze d’Italia di de Chirico scavalcano la dimensione metafisica per descrivere –ironicamente o in modo sinistro – un reale presente, allora possono assumere una certa attualità anche i viaggi immaginari nelle città (di de Chirico e non solo) attraversate dalla mente letteraria di Italo Calvino.
1.
Siamo tutti tentati dall’idea di un viaggio, fosse anche solo della mente. E allora prima di partire ci ripetiamo che “il pensiero ha bisogno di luoghi su cui posarsi, adatti ad ospitarlo” e sono quei luoghi che inseguiamo, forse ora un po’ spaesati.
Abituati come siamo a essere cittadini, quali luoghi ospiteranno il pensiero, adesso che le città sembrano ritrarsi nel mistero? Che cosa sta succedendo in quel fuori, senza (la maggior parte) di noi? La città è diventata muta, o parla una lingua che non riusciamo ad afferrare dalla finestra?
2.
Si insinua un primo dubbio. Dobbiamo stare dentro. Siamo, in effetti, tutti dentro. Dentro casa, dentro la pandemia, dentro la crisi. E quanto più dobbiamo abitare il dentro, tanto più ci attira il fuori. E ci spaventa, al tempo stesso. Vorremmo conoscere adesso quel fuori che ci sembrava familiare e che invece conosciamo così poco.
Se vuoi sapere quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane.
E allora proviamo, affacciandoci, a osservare la luce che filtra dall’esterno.
Per chi osserva da fermo il mondo si sfalda discontinuo alla vista e all’udito nella frana dello spazio e del tempo. «D’int’ubagu», dal fondo dell’opaco io scrivo, ricostruendo la mappa d’un aprico che è solo un inverificabile assioma per i calcoli della memoria, il luogo geometrico dell’io, di un me stesso di cui il me stesso ha bisogno per sentirsi me stesso, l’io che serve solo perchè il mondo riceva continuamente notizie dell’esistenza del mondo, un congegno di cui il mondo dispone per sapere se c’è.
3.
Ma quella che possiamo tracciare è la mappa di un fuori che non abbiamo modo di verificare, di rendere tangibile con gli altri sensi. Allora improvvisiamo, torniamo al dentro, forse possiamo capirci qualcosa. Finché dentro e fuori si mescolano. Un dubbio.
Esterno e interno si scambiano i ruoli. Le colonne e gli alberi s’ammucchiano in una stanza; le poltrone gli armadi a specchi si posano sui prati. È per farmi rinunciare a pensare al fuori? Per escludere che un fuori esista?
E se non possiamo sciogliere il dubbio, questo finirà per allargarsi. Lasciamoglielo fare. Altri dubbi.
Non so da quanto tempo sto vagando attraverso questa città: non so più chi ero quando sono entrato tra le sue mura, né quanto sono cambiato da quando ho imparato a considerare tutto ciò che vedo come spoglia che devo lasciare alle mie spalle, relitto d’un mondo di cui la mente deve liberarsi per raggiungere l’esattezza, l’impassibilità, la trasparenza.
Non ricordo quali passioni o turbamenti offuscavano il pensiero fuori di qui; ho dimenticato la parte di me stesso che ho lasciato lungo il cammino […].
Alle volte penso che andando avanti sempre più nel cammino che questa città mi indica, arriverò a ricomporre qualcosa che s’è spezzato; alle volte invece mi pare che sia stata consumata una separazione definitiva. Ma separazione tra cosa e cosa? Questo non lo so.
Se i dubbi si moltiplicano, può darsi che alcuni da soli si perderanno per strada, lasciamoceli alle spalle.
4.
Siamo fermi, ma in cammino per ricomporre qualcosa. Oppure siamo irreversibilmente separati? E quali sono i termini della composizione o scomposizione che stiamo attraversando?
Quali sono le particelle tra cui orbitiamo?
Marco entra in una città; vede qualcuno in una piazza vivere una vita o un istante che potevano essere suoi; al posto quell’uomo ora avrebbe potuto esserci lui se si fosse fermato nel tempo tanto tempo prima, oppure se tanto tempo prima a un crocevia invece di prendere una strada avesse preso quella opposta e dopo un lungo giro fosse venuto a trovarsi al posto di quell’uomo in quella piazza. Ormai, da quel suo passato vero o ipotetico, lui è escluso; non può fermarsi; deve proseguire fino a un’altra città dove lo aspetta un altro suo passato, o qualcosa che forse era stato un suo possibile futuro e ora è il presente di qualcun altro. I futuri non realizzati sono solo rami del passato: rami secchi.
— Viaggi per rivivere il tuo passato? — era a questo punto la domanda del Kan, che poteva anche essere formulata così: — Viaggi per ritrovare il tuo futuro?
E la risposta di Marco:
— L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.
Uno specchio in negativo. Le città che abbiamo in mente si riflettono nelle immagini di città vuote e senza persone. Le libertà che cerchiamo fuori si riflettono e scompongono nella lotta alla noia del dentro. E se guardiamo avanti per intravedere un dopo – ammesso che possiamo già esserne capaci – ci ritornano, in negativo le immagini di futuri non realizzati e tracce ancora da scrivere, che adesso dobbiamo inventare.
5.
E allora, tra i dubbi, continuiamo a vedere e ascoltare. E se i sensi non ci sembrano abbastanza, proviamo a immaginare cosa direbbero gli altri – chiunque essi siano – attorno a noi.
A chi potrei chiedere la strada? A quei due personaggi laggiù in fondo? Mi sembrano lontani; anche se adesso sono fermi e sembra che parlino tra loro, prima che io sia arrivato là certo si saranno allontanati. Potrei invece interrogare una statua? Se ne incontrano molte e paiono più facilmente raggiungibili. […]
Ma quello che le statue insegnano, senza che io lo chieda, è una linea di condotta: devi stare immobile, lasciare che lo spazio circoli intorno a te; se ti situi nel modo giusto nello spazio, il tempo non avrà più presa su di te, la clessidra resterà sospesa. Lo spazio ha dimensioni che presentano ognuna caratteristiche diverse: l’orizzontalità è un piano continuo, la verticalità è fatta di elementi isolati: torri, fari, ciminiere. In cima alle torri sventolano bandiere appuntite, stendardi, orifiamme d’ogni colore.
6.
Dunque, non sappiamo per certo se siamo dentro o siamo fuori. Siamo fermi, ma coinvolti in un movimento profondo e incessante. Dal fondo opaco degli occhi chiusi, cerchiamo di vedere attraverso, e in suoni e parole che crediamo familiari, cerchiamo indizi nuovi.
Seguiamo la condotta plastica delle statue, immobili ma mai ferme.
E in questo cammino mentale o fisico, muovendoci nella città reale o nei suoi fantasmi, possiamo imbatterci in una città come Bauci.
Dopo aver marciato sette giorni attraverso boscaglie, chi va a Bauci non riesce a vederla ed è arrivato. I sottili trampoli che s’alzano dal suolo a gran distanza l’uno dall’altro e si perdono sopra le nubi sostengono la città.
Ci si sale con scalette. A terra gli abitanti si mostrano di rado: hanno già tutto l’occorrente lassù e preferiscono non scendere. Nulla della città tocca il suolo tranne quelle lunghe gambe da fenicottero a cui si appoggia e, nelle giornate luminose, un’ombra traforata e angolosa che si disegna sul fogliame.
Tre ipotesi si dànno sugli abitanti di Bauci: che odino la Terra; che la rispettino al punto d’evitare ogni contatto; che la amino com’era prima di loro e con cannocchiali e telescopi puntati in giù non si stanchino di passarla in rassegna, foglia a foglia, sasso a sasso, formica per formica, contemplando affascinati la propria assenza.
Qual è l’ipotesi più convincente sugli abitanti di Bauci? Siamo anche noi qui a contemplare la nostra assenza, ma possiamo davvero sapere – e amare – la terra così com’era prima di noi?
Forse questo passare in rassegna luoghi e pensieri che in questo momento ci sono vicini-e-lontani, non dovrebbe essere una contemplazione di quello che (non) siamo stati, ma uno slancio per quello che saremo.
Allora mentre affiniamo la ragione, i sensi, e l’intuito, continuiamo a pensare la città, una città, tutte le città. Perché sopra le città ci siamo allenati a posare il pensiero. Ma quello che succede in questa città del pensiero, non è confinato negli spazi fisici. Questa città è un esercizio di trasformazione.
«La città – dice l’altro – è estesa nello spazio, dato che siamo visti da lontano».
E il primo: «La città è maestosa, dato che sembriamo così piccoli».
E il secondo: «La città non è muta, dato che noi due parliamo».
«Parliamo – aggiunge il primo – e che cosa diciamo?»A questo punto non sono più sicuro che quei due conversatori stiano conversando, che quei due passeggiatori stiano passeggiando, che quei due abitanti stiano abitando.
Mentre una parte di me ne è attratta, qualcosa si stacca da me e percorre invisibile quei portici, si inoltra in quelle piazze, sale su quelle torri: il pensiero.
Questa città è fatta per accogliere il pensiero, per contenerlo e trattenerlo senza che si senta costretto. Qui il pensiero trova il suo spazio, e il suo tempo, un tempo sospeso, come d’invito, d’attesa. Qui il pensiero sente d’essere sul punto d’affacciarsi all’orizzonte della mente e può prolungare questo stato d’incertezza aurorale e rimandare il momento in cui sarà obbligato a precipitarsi, a diventare il pensiero di qualcosa.