Comunità e luoghi
Nella sua storia millenaria, la città di Roma è stata da sempre crocevia di popoli, luogo di incontro, crogiuolo di genti. Basti pensare che fu anche governata da imperatori di diverse etnie. Nonostante la sua nascita come città-stato, infatti, nel tempo Roma conquistò il controllo di un impero enorme che si estendeva a sud fino al Nord Africa, a nord con la Gran Bretagna e ad est in Siria, Giordania e Iraq. Come dimostrano le fonti e le testimonianze archeologiche, l’espansione dell’impero facilitò il movimento e l’interazione delle persone grazie alla nascita di ricche reti commerciali, nuove infrastrutture stradali e campagne militari.
La città di Roma ha accolto e continua ancora oggi ad accogliere popoli da tutto il mondo; molteplici sono infatti le comunità di migranti attualmente integrate nel tessuto urbano romano. Dagli ultimi dati rilevati dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – in particolare attraverso il Rapporto della Città Metropolitana di Roma sui cittadini stranieri regolarmente soggiornanti nella Città Metropolitana – tre risultano le comunità di migranti più consistenti in termini numerici, ovvero quelle della Romania, delle Filippine e del Bangladesh.
Se nel progetto Innesti l’artista Paco Cao sceglie di rappresentare la città di Roma con due piante eccellentemente emblematiche, ovvero il fico e la vite, lo stesso processo di individuazione viene messo in atto per questi tre gruppi di migranti.
La comunità rumena – che vive principalmente nelle aree periferiche della città come Tor San Giovanni e Cesano – viene rappresentata dalla vite victoria, una varietà ottenuta dall’incrocio costituito in Romania presso l’Istituto di Ricerche Orticole di Dragasani da Lepodatu Victoria e Condei Gheorghe. Vitigno da tavola molto valido per le caratteristiche organolettiche, per la sua produttività, diffusosi dapprima in Romania e successivamente sperimentato con successo anche in Italia e Grecia.
In questo caso quindi l’innesto comprende un nesto (marza) che appartiene alla stessa famiglia del portinnesto che è rappresentato dalla vitis vinifera con la varietà Malvasia puntinata, tipica del territorio laziale:
“È la stessa pianta, originariamente lo stesso tipo, come i nostri popoli hanno la stessa origine comune che naturalmente è quella latina. Quindi sono due tipi di vite che collaborano, con l’augurio che alla fine si possa bere un vino migliore insieme e brindare a questa nuova armonia che si crea. La vite d’altronde è molto importante anche per i rumeni. È una pianta che è coltivata dai tempi dei Daci, dai tempi del re Decebalo, il quale aveva addirittura vietato la coltura della vite per rendere i Daci migliori guerrieri, per non farli sviare. Un divieto che è durato molto poco perché la vite non è soltanto la pianta della convivialità e la pianta il cui prodotto è un frutto che poi mangiamo in tutte le varianti fino ad arrivare ad essere un vino con cui si brinda nelle più varie occasioni- ma la vite è anche la pianta della stabilità, è una pianta che tiene ferma la terra, tiene fermo il versante della collina e questo lo vediamo ormai da secoli in Romania e in Italia” (tratto da un’intervista a Oana Boşca-Mălin, vicedirettrice dell’Accademia di Romania in Roma).
La tipologia di innesto utilizzata da Gerardo Fernández Medina, l’agronomo specializzato che ha seguito il progetto, è quella che prevede un taglio a becco di clarino, ovvero, la marza e il ramo della vite vengono recisi tutti e due insieme in maniera da avere un taglio identico nelle due le viti; il taglio deve essere uguale e far combaciare perfettamente le due parti intermedie affinché il rametto rimanga sempre verticale in un impeccabile gioco di incastro.
La comunità filippina – che risiede soprattutto nei quartieri di Roma Nord e dell’Eur – è rappresentata dalla ficus benjamina, specie appartenente alla famiglia delle Moraceae che, come la gran parte delle varietà dello stesso genere, è originaria del Sud-Est dell’Asia, dall’India, alle Filippine, fino all’Australia.
“Le nostre nuove generazioni apprezzano la pasta e non mangiano il riso o il nostro cibo tipico filippino. Parlano italiano e non parlano la nostra lingua. È un po’ problematico, questo secondo me è uno dei dolori, degli effetti dell’operazione: quando tu trasferisci una pianta, come nel progetto di Paco Cao, e la rimetti in un altro terreno il processo presenta delle difficoltà…Ad esempio, non sappiamo se sentirci italiani o filippini, c’è una crisi d’identità, ma nel frattempo comunque l’immigrazione – se dobbiamo paragonare gli innesti con l’immigrazione – di sicuro continuerà perché è nella storia di questo mondo. Gli “innesti” ci saranno e ci sarà bisogno anche delle cure. La cura è la collaborazione di noi come comunità con la comunità e la società che ci accoglie perché, per il bene o per il male, siamo qua innestati e ci rimarremo. E ci saranno sempre nuovi innesti” (tratto da un’intervista a Charito Basa, fondatrice e un membro dell’associazione Filipino Women’s Council in Italia).
In questo caso sul portainnesto composto dal ficus carica si va ad innestare il ficus benjamina. Essendo quest’ultima una pianta più fine e con una corteccia più sottile rispetto al ficus carica, quello che lo specialista agronomo ha deciso di portare avanti è un innesto a gemma, che consiste precisamente in prelevare una gemma della marza che si andrà a posizionare nel ficus carica. In questo caso però si utilizza la tecnica a T. Quindi creando un taglio orizzontale e uno verticale sul portinnesto in modo da poter alzare i due triangoli che vengono a crearsi come due lembi che si alzano facilmente perché, essendo una pianta al momento posizionata in verticale, la linfa corre all’interno della pianta e quindi la corteccia si rialza senza difficoltà. A quel punto si infila la gemma nella posizione giusta e poi si lega e si salda alla corteccia della pianta che la riceve.
La comunità bengalese – maggiormente presente in quartieri come il Quadraro, Torpignattara e l’Esquilino – viene infine rappresentata con la ficus elàstica. In Bangladesh, questa pianta originaria dell’Asia meridionale e sudorientale, si trova spesso ai margini delle strade o delle foreste, nei parchi e nei giardini.
“Mi piace molto la natura, in Bangladesh è molto presente ma non nella capitale bensì fuori dalla capitale dove noi abitiamo, ci vado spesso con la mia famiglia. Conosco la pianta di fico, prima non c’era nel mio paese ma ora ne vedo qualche pianta, la prendono fuori dal paese ma sono molto poche. Adesso in Bangladesh si trova tutta la frutta, anche l’albicocca, la pesca…ma vengono portate da fuori. La terra in Italia e nel Bangladesh è simile quindi i fichi vengono bene ma io per ora nel mio paese li ho visti solo dalla televisione” (tratto da un’intervista a Safiquor Rahman, immigrato dal Bangladesh e ora residente a Roma)
Seguendo quindi questi criteri di appartenenza che attraversano considerazioni eterogenee, l’artista Paco Cao sperimenta e verifica a livello botanico gli equilibri che livellano le interazioni socio-culturali che avvengono a Roma, raccontando metaforicamente ciò che nella città è avvenuto per secoli, ovvero l’incontro fra differenti culture e l’accoglienza di comunità provenienti da tutto il mondo.
Altrettanto rappresentativi sono i luoghi in cui sono state effettuate le piantumazioni, scelti dall’artista per il loro valore storico e simbolico. Come, ad esempio, il Parco Archeologico di Ostia Antica (VII secolo a.C.), la porta di accesso al mare, punto di partenza e di arrivo per i popoli del Mediterraneo verso la capitale dell’Impero.
Come sottolinea infatti il Direttore del Parco Alessandro D’Alessio, intervistato dall’artista Paco Cao, Ostia e Porto, a partire dall’età imperiale, vengono a costituire il più grande scalo fluviale marittimo del mondo antico, divenendo la porta di Roma sul mediterraneo. Ad oggi lo si potrebbe paragonare ai più grandi scali marittimi contemporanei come Shanghai, Hong Kong, Rotterdam, New York o Tokyo, con scala forse ancora maggiore. Oltre alle merci e ai prodotti, arrivavano quindi ad Ostia anche persone da ogni angolo del Mediterraneo, di etnie e provenienze geografiche differenziate che portano le loro idee, i loro costumi, i loro usi, i loro culti, costituendo il luogo per eccellenza nel mondo antico dell’integrazione etnica e culturale.
Il secondo sito prescelto per la realizzazione degli innesti è stato la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali – Museo Pietro Canonica a Villa Borghese (XVII secolo), immerso nella cornice verde di Villa Borghese, nevralgico punto d’incontro per le comunità di extracomunitari.
Nell’intervista a Costantino D’Orazio, storico dell’arte e curatore presso la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, proprio quest’ultimo sottolinea come per coloro che si trasferiscono e si stabiliscono a Roma da altri paesi europei o extraeuropei, Villa Borghese costituisce un luogo molto importante e significativo perché è di fatto la loro prima casa fuori dalle mura in cui si trovano ad abitare. È un parco sempre aperto, che non chiude mai neanche durante la notte e soprattutto durante il fine settimana le comunità, i gruppi di stranieri, si radunano nella Villa, organizzano feste, picnic o a volte anche delle vere e proprie cerimonie nazionali.
Terzo luogo selezionato è stato quello delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini (1625-1633), gioiello barocco seicentesco nel cuore pulsante del centro storico di Roma che ha inoltre ospitato la presentazione del progetto stesso.
Ugualmente coinvolti nel progetto sono stati i Musei Capitolini e la Galleria Borghese, insieme all’Università La Sapienza e l’Osservatorio sul razzismo e le diversità “M.G. Favara” dell’Università Roma Tre che hanno offerto il loro supporto scientifico.
L’intero processo è stato documentato nel tempo attraverso fotografie, video e interviste con persone provenienti da un’ampia gamma di contesti, compresi i rappresentanti delle comunità di migranti. Attualmente è in corso il montaggio di un film documentario.