“Quicosì” (chi ch’inscì) è un’espressione tipica della parlata milanese. Una delle mie zie la ripete in continuazione, facendola diventare quasi un intercalare. Quicosì, come andiamo? Quicosì bisognerebbe aprire le finestre! Quicosì va tutto bene? Non basta solo essere in un certo modo (si fa così) o dire in un certo modo (si dice così) occorre anche che vi sia un luogo, uno spazio per accogliere il modo, per articolarlo, per renderlo reale. Il “così” ha sempre bisogno di un “qui”. Lo spazio avvolge il modo. Affinché vi sia un modo, una modalità dell’esistere, occorre che vi sia uno spazio che ci accoglie, occorre avere un’intimità con quello spazio.
Oggi, qui così, siamo tutti reclusi nelle nostre abitazioni ma percepiamo di non avere questo luogo, un luogo in cui articolare nuove modalità. Siamo spiazzati nello spazio. Il qui non articola un così. L’intimità della casa non rende confortevole creare nuovi modi. In casa siamo, indubbiamente, cosy, avvolti da un confortevole senso di proprietà – quello che ci circonda è conosciuto, quello che vediamo è familiare, quello che ascoltiamo è comprensibile – ma la vita è altrove. O, per dir meglio, è qui in quanto è anche sempre altrove. Anywhere out of the World, scriveva. Aggiungendo, n’importe où ! n’importe où ! pourvu que ce soit hors de ce monde !
Se il qui, il più prossimo, ha un senso, se l’intimità può rivelare qualcosa di noi, è solo alla luce di un altrove che non sia cosy, e nemmeno così così, ma decisamente straordinario, eccezionalmente altro da noi. E’ solo alla luce dell’altro che il sé assume la propria fisionomia, la propria identità.
Solo amando lo sconfortevole e imprevedibile e difficile fuori, il dentro non diventa una gabbia dove tutto è già dato, tutto è già definito. Si dà senso solo nell’indecisione, non nella certezza.
Guardo fuori dalla finestra. Indubitabile sapere dello sguardo: il mondo è là.
Federico Ferrari