- Il 19 novembre 2019 alle ore 5:08 pm
A distanza di circa 40 anni dalla prima mostra personale di Robert Morris tenutasi nel 1980, a cura di Ida Panicelli e dedicata alla scultura minimal, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea celebra un artista fondamentale per la storia dell’arte contemporanea, maestro del Minimalismo americano di cui è stato uno dei fondatori, della Process Art e della Land Art.
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Il quaderno catalogo della mostra con testi di Cristiana Collu, Direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Saretto Cincinelli, curatore della mostra, Pepe Karmel, Federico Ferrari e Robert Morris (in «Critical Inquiry», 41, n. 2 (Winter 2015), pp. 289-311).
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A Few Thoughts on Bombs, Tennis, Free Will, Agency Reduction, the Museum, Dust Storms, and Labyrinths di Robert Morris
Per almeno due decenni mi sono rifiutato di tenere discorsi e quando ogni tanto mi è stato richiesto di farne, ho inviato un documento che ho in archivio. Fino ad oggi ha funzionato per tenermi alla larga. Eccolo qui:
NON DISPONIBILE
Non voglio parlare dell’arte che ho realizzato mezzo secolo fa. Il Minimalismo non ha bisogno di sentirlo da me. Non voglio parlare dell’arte che ho fatto ieri. L’arte contemporanea fa già abbastanza baccano senza di me. Non voglio essere ripreso nel mio studio mentre fingo di lavorare. Non voglio partecipare a messe in scena di conversazioni sull’arte (la mia o quella altrui, passata o presente) che altro non sono che faticose performance dissimulate. Non voglio essere intervistato da curatori, critici, direttori artistici, teorici, studiosi di estetica, esteti, professori, collezionisti, galleristi, intenditori di cultura, giornalisti o storici dell’arte sulle mie influenze, sugli artisti che preferisco, gli artisti che disprezzo, gli artisti passati, gli artisti contemporanei, gli artisti futuri […] Tanto tempo fa ho preso l’abitudine, mai più abbandonata, di annotare invece che di parlare.
È possibile che io sia stato indotto a fare arte perché parlare ed essere al cospetto di altre persone non erano obbligatori. Non voglio che mi si chiedano le ragioni per cui non ho lavorato secondo un unico stile, o quelle di una qualunque delle opere d’arte che ho realizzato (la ragione è che non ci sono ragioni nell’arte). Non voglio rispondere alle domande sul perché ho usato compensato, feltro, vapore, sporcizia, grasso, piombo, cera, soldi, alberi, fotografie, elettroencefalogrammi, caldo e freddo, stratificazioni, esplosioni, nudità, suono, linguaggio o perché ho disegnato a occhi chiusi. Non voglio raccontare aneddoti sul mio passato o storie sulle persone con cui sono stato intimo.
Le persone a cui devo molto o lo hanno saputo o non lo sapranno mai perché adesso è troppo tardi. Non voglio documentare punti di partenza, punti di svolta, punti alti, punti bassi, punti buoni, punti cattivi, battute di arresto, interruzioni felici, rotture fallimentari, punti di rottura, vicoli ciechi, passi avanti o crisi. Non voglio parlare dei miei metodi, processi, operazioni mancate, coincidenze, errori, insuccessi, intoppi, disastri, ossessioni, colpi di fortuna, colpi di sfortuna, cicatrici, insicurezze, disabilità, fobie, fissazioni o insonnie per via di cartelloni che non avrei mai dovuto fare […] Non voglio che mi sia fatto un ritratto. Ognuno usa l’altro per i propri scopi, e sono felice di essere solo materiale per qualcun altro fintanto che posso esercitare il mio diritto di rimanere in silenzio, immobile, possibilmente armato, e a una distanza di diversi chilometri. Tuttavia mi ritrovo qui e a parlare.
Robert Morris
in «Critical Inquiry», 41, n. 2 (Winter 2015), pp. 289-311
Dal quaderno catalogo della mostra i testi di Cristiana Collu, Saretto Cincinelli, Pepe Karmel e Federico Ferrari
In una lettera del 1943, Hilla Rebay scriveva a Frank Lloyd Wright: «Voglio un tempio dello spirito, un monumento!». Al museo ci troviamo dunque dentro un tempio dello spirito, un monumento abitato da opere in mostra che a loro volta rappresentano altrettanti templi temporanei, effimeri in cui accogliere lo spirito, il genio, l’anima di quelle opere.
L’anima ha un peso, pochi grammi pare, e quando abbandona un corpo non è ancora chiaro dove vada a rifugiarsi, forse rimane semplicemente ad aleggiare «nell’aria croccante». Monumentum, la mostra che La Galleria dedica a Robert Morris immaginata con lui prima della sua scomparsa, è suo malgrado anche una commemorazione, un omaggio postumo. Non solo, però. Una parola così stratificata ci permette infatti di dire molto di più anche in relazione a Roma, alla città monumentale per antonomasia.
Proprio in virtù della sua complessa etimologia, il termine “monumento” veicola un universo di significati, sorta di nube semiotica, che nel nostro caso risulta essere particolarmente pertinente. Dal “monumento” al “monumentum” (documento e testo artistico insieme, luogo del valore e non solo della rappresentazione), al “momento” (inteso nella sua dimensione effimera), al “momentum” (l’istante decisivo dell’impulso, nell’accezione inglese). Un istante che è anche un’acme, quella raggiungibile finanche in tarda età se la tensione a essere autentici, a essere se stessi, e non come qualcuno vorrebbe che fossimo, viene preservata.
Morris si è definito una volta con la parola “unavailable”.
Sono certa che nemmeno “untaggable” gli dispiacesse.
Cristiana Collu
Direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Il complesso e multiforme itinerario nell’arte contemporanea di Robert Morris si è concluso, improvvisamente, mentre il progetto di questa mostra era ancora in corso. L’originaria idea espositiva, concordata nelle sue grandi linee con l’artista, non muoveva dall’intento di realizzare una mostra antologica ma dalla volontà di installare in un unico grande ambiente, il salone centrale della Galleria, due sorprendenti cicli scultorei: Boustrophedons e MOLTINGSEXOSKELETONSSHROUDS, ancora inediti in Europa. L’improvvisa scomparsa dell’artista non ha modificato in nulla il progetto originario, se non per l’aggiunta di un doveroso e tempestivo omaggio postumo: l’installazione di un grande feltro, Untitled, 1976, nel contesto di Time is Out of Joint.
Ad accomunare le figure delle due serie, al di là di ogni elemento tematico e figurativo e di ogni richiamo, più o meno diretto, a opere dei maestri del passato, è il ricorso al procedimento fondante dell’impronta. Scaturendo entrambe dalla procedura del calco, le due serie gettano, inoltre, un’inedita luce sul concetto di simulacro da molti considerato figura principe della cosiddetta postmodernità.
È proprio nella duplicazione apparentemente meccanica e priva di stile dell’impronta, nella sua ostinata resistenza a risolversi totalmente in oggetto estetico, che paradossalmente può essere rintracciato il paradigma di opere come MOLTINGSEXOSKELETONSSHROUDS e Boustrophedons che, in accordo con la messa in discussione post-strutturalista del soggetto, pongono la questione dell’arte abbandonando le rassicuranti e tradizionali nozioni di Autore, Opera, Significato, riscoprendo, al di là dell’estetica romantico-modernista, alcuni tratti del sublime di matrice kantiana.
Saretto Cincinelli
curatore della mostra Romert Morris. Monumentum 2015–2018
Robert Morris: Dark Passage di Pepe Karmel
[…] Robert Morris è soprattutto noto per essere uno dei padri fondatori del Minimalismo. Negli anni ’60, rifiutò ogni dinamismo, soggettività ed espressività per la stasi, l’impersonalità e l’inespressività. Scioccante risulta quindi l’incontro con la sua ultima produzione qui in mostra.
[…] La mostra delle costruzioni geometriche essenziali alla Green Gallery di New York (16 dicembre 1964 – 9 gennaio 1965), in concomitanza con la sua partecipazione alla mostra collettiva Shape and Structure alla Tibor de Nagy, ha segnato un momento decisivo per il Minimalismo. La critica d’arte Barbara Rose notò allora l’emergenza di un nuovo tipo di “oggetto scultura” sintetizzato dall’opera di Morris e di Donald Judd. «Qualsiasi testimonianza di carattere personale è accuratamente eliminata» scrisse «così come ogni riferimento a stati psicologici o a forme naturali». Un altro critico, Max Kozloff, riassunse la nuova sensibilità nella formula «estetica della sterilità».
[…] Dal 1967, il lavoro di Morris è andato simultaneamente evolvendosi in due diverse direzioni. Le sue costruzioni cubiche aperte, assemblate a partire da lamiere di acciaio o reti espanse, suggerivano spazi architettonici, abitazioni accoglienti o minacciosi imprigionamenti. I lavori in feltro segnarono l’inizio dell’impiego di materiali tessili che lo avrebbe condotto, quasi cinquant’anni dopo, ai MOLTINGSEXOSKELETONSSHROUDS e ai Boustrophedons di questa mostra. Morris prese grossi scampoli di feltro industriale, li tagliò in campioni e schemi geometrici, appendendoli alle pareti o semplicemente ammucchiandoli sul pavimento. Il motivo geometrico originale svaniva o risultava distorto dall’interazione della forza di gravità con il peso e la rigidità del feltro.
[…] In occasione di una sua visita a Roma negli anni ’70, Morris fu profondamente colpito dal sepolcro di papa Alessandro VII (1671-78), opera del Bernini, con la drammatica figura della morte rappresentata come uno scheletro dorato la cui mano levata stringe una clessidra. L’artista parafrasò direttamente tale figura nell’installazione First Study for a View from a Corner of Orion (Day) del 1980. Da allora nella sua produzione cominciò ad apparire regolarmente un linguaggio esplicitamente figurato. Ossa e scheletri erano motivi ricorrenti nei disegni e nei rilievi hydrocal in cui Morris utilizzava vortici barocchi di fuoco e fumo per evocare la minaccia della guerra nucleare.
[…] La rappresentazione figurata divenne ancora più importante nei disegni di Investigations che Morris iniziò a realizzare nel 1990. Riflettendo sulla storia dell’arte – e più in generale sulla storia – Morris assemblò immagini fotografiche delle proprie opere (dipinti e sculture degli anni precedenti) con eventi chiave della storia del XX secolo. Invece di usare un fotomontaggio convenzionale, conferì un aspetto unitario alle immagini eterogenee ridisegnando ognuna di queste con un tratteggio denso e riuscendo in tal modo a imporre una stessa consistenza al disegno preso nel suo insieme, pur preservando le caratteristiche visive dei materiali di partenza. È in questo contesto che l’immaginario di Francisco Goya appare per la prima volta nei suoi lavori, nei quali acquisirà importanza crescente.
La promessa mancata di Federico Ferrari
Le sculture che Robert Morris realizzò negli ultimi anni della sua vita, e che sono ora in mostra a Roma, ricordano le sculture di Niccolò dell’Arca, non foss’altro che per una vicinanza cromatica e per la potente centralità del ruolo delle vesti e dei drappeggi. I due cicli furono originariamente esposti nel 2015 (MOLTINGSEXOSKELETONSSHROUDS) e nel 2017 (Boustrophedons) presso la Galleria Castelli di New York. Morris aveva ottantaquattro anni quando espose le sue prime opere in lino imbevuto di resina, nelle quali, in modo inequivocabile, il centro della scena è occupato dalla morte. Non sorprende, ovviamente, che un artista di quell’età abbia rivolto la propria attenzione a questo soggetto. Quando, infatti, un essere umano varca la soglia della maturità – e questa soglia può essere posizionata diversamente da individuo a individuo –, quasi ineluttabilmente, subentra un pensiero dominante che, a seconda dei casi, diviene ossessivo o latente: il pensiero della morte appare prepotentemente nella sua enigmaticità. Se, negli anni della giovinezza, lo slancio vitale spinge verso la ricerca di dimensioni ulteriori del possibile, in tutte le sue sfumature – sfumature che, nel caso di Morris, andarono dalla performatività alla più potente e fredda astrazione minimalista –, relegando la presenza della morte in una dimensione che si pone al di là della propria esperienza vitale del mondo, con la maturità la sua inquietante presenza irrompe nel quotidiano esistere. La morte non è più semplicemente posta nell’aldilà ma si muove nel qui e ora. Senza tregua, la morte si insinua nelle giornate; nella luce crepuscolare che ogni ricordo assume; nello svanire delle certezze che avevano guidato le nostre scelte; nella corruzione e nel decadimento del corpo. Improvvisamente, il pensiero della morte diventa un’ombra inseparabile dalla nostra vita. La morte instaura un processo speculare alla vita, diventa quasi la scansione ritmica di un va e vieni nel quale il pensiero gira su se stesso, spesso sfinendosi. Continuamente, noi passiamo dalla vita alla morte, in ogni cosa vediamo questo passaggio. La sola certezza che abbiamo di essere vivi è che questo cammino dalla vita alla morte sia bustrofedico, cioè vi sia sempre un ritorno, un ripercorrere i propri passi, alla maniera dell’aratro trainato dal bue che – aprendo solchi, ferite, squarci – rende fertile la terra per mezzo di un percorso che punta in una direzione e poi raddoppia, a ritroso, nel senso opposto. Il pensiero della morte diviene questo movimento ritmico, di andata e ritorno, attraverso cui la vita riconosce il proprio doppio e il proprio sempre nuovo senso o non-senso. Le figure che Robert Morris presenta nelle due serie Boustrophedons e MOLTINGSEXOSKELETONSSHROUDS sono manifestazioni di questa tonalità emotiva fondamentale, di questa incombenza della morte, della sua enigmatica presenza. Morris, a dispetto dell’immagine più diffusa e stereotipata di esponente di un’arte minimale, astratta e di totale rottura con ciò che l’ha preceduta, è stato uno degli artisti del secondo Novecento che più ha riflettuto e più è entrato in dialogo con la tradizione artistica antecedente. Inevitabile era, quindi, per lui, il confronto con i temi e i soggetti portanti di questa tradizione. E, ovviamente, con il soggetto più ricorrente di tutta l’arte occidentale: la morte. Le figure che costituiscono l’umanità di questo ciclo morrisiano sono state realizzate utilizzando manichini sui quali sono stati posti i drappeggi, imbevuti di resina. I manichini sono stati poi rimossi, dando vita, una volta ricomposti i drappeggi, a esseri senza corpo; esseri di cui è rimasta solo la traccia di un corpo ormai assente, rimosso. In un certo senso, queste opere di Morris parlano, in primo luogo, di una rimozione del corpo. Una rimozione, naturalmente, anche in senso psicanalitico. Il corpo è il grande rimosso della nostra civiltà. E, ancor più, il corpo morto. Quali siano le ragioni di questa rimozione è, chiaramente, domanda che si presta a molteplici risposte. Non ultima credo sia quella attesa escatologica frustrata sulla quale si fonda l’Occidente nella sua anima messianica. Il corpo morto è la prova inconfutabile del non mantenimento della promessa. L’Occidente si fonda su questa promessa, la vittoria sulla morte e la resurrezione dei corpi.