- Il 28 dicembre 2018 alle ore 4:49 pm
Wonder Objects, il lavoro di Chiara Bettazzi esposto nella mostra ILMONDOINFINE: vivere tra le rovine, è emblema di un percorso artistico che da sempre si basa sull’analisi del binomio organico-inorganico e si sviluppa secondo un processo ossessivo di ricerca e accumulazione di oggetti. Il materiale che l’artista acquista o recupera presso i mercatini dell’usato, è composto principalmente da ceramiche, bicchieri, zuppiere, piatti, posate, contenitori chimici, cofanetti portagioie e reperti ossei.
Chiara Bettazzi, Wonder Objects, 2013-2018
ILMONDOINFINE: vivere tra le rovine
C’è un terremoto fisico, reale, oggettivo, scientificamente misurabile e c’è un terremoto soggettivo, spirituale, che coinvolge l’essenza più profonda dell’io. La memoria è anche questo, esplorare percorsi inconsueti, definire una geografia dell’anima: da dove nasce la tua urgenza ad occuparti della memoria e di elaborarla attraverso i supporti quali oggetti d’affezione?
Da sempre sono legata ad un lavoro che prende inizio da un’ indagine connessa ai ricordi, alla memoria sia collettiva che personale. Nei primi anni, la mia ricerca si focalizzava sulla raccolta e l’accumulo di oggetti di uso quotidiano che recuperavo dentro fabbriche abbandonate, mercatini, prediligendo spazi da svuotare alla ricerca di cose che possedessero una propria biografia da accostare spesso a oggetti personali.
Il mio lavoro ha una forte componente biografica che cerca di rintracciare un vissuto costantemente in progress. La memoria gioca un ruolo fondamentale non solo nella scelta di ogni singolo oggetto che all’inizio seleziono e che successivamente diventa protagonista, ma si rivela motore fondamentale durante il processo di costruzione dell’opera, in quanto spontaneamente inizia a far emergere un’immagine che mentre affiora s’intreccia con quello che sto realizzando in quel preciso momento. Il risultato che genera questo tipo di processo non è mai esattamente programmato ma nasce liberamente mentre lo realizzo. La memoria fa in modo che il lavoro accada e prenda forma, in una sorta di automatismo che non è cercato ma trovato.
Chiara Bettazzi, Wonder Objects (dettaglio), 2013-2018
Nelle Wunderkammer convivevano Naturalia ed Artificialia: Wonder Objects, invece, è il risultato di un processo di ibridazione materica. Ci racconti qualcosa di più?
Wonder Objects è un lavoro che mi porto dietro da anni e che tenta di coniugare le due categorie. Organico e inorganico, in questo caso convivono in una forma ibrida di conservazione. Ampolle, vasi e contenitori diventano conservatori di memoria e di svariate materie che realizzo e accosto, spesso queste materie sono residuali di altri lavori passati, oppure resti di esperimenti fallimentari. Svariate sostanze artificiali realizzate mediante calchi di bottiglie di vetro che colleziono in studio, oppure avanzi di gomme siliconiche pigmentate che simulano epidermidi sono unite a materie organiche come ossa, terra, piante vegetali, conchiglie sassi, insieme a materiali medicali. L’istallazione gioca in maniera quasi ossessiva sull’idea di composizione che raggiunge visivamente un’immagine fragile data dai materiali scelti che sono sormontati su colonne, realizzate attraverso l’innesto di tante tipologie di oggetti. In questo lavoro insisto sull’ambiguità che deriva dalla molteplicità materica di cui tutto è costituito, come ad esempio le varie colonne carbonizzate, che sono in realtà basamenti di tavoli da pranzo recuperati all’interno di una fabbrica incendiata, pezzi di pavimento prelevati direttamente da zone del mio studio; tutto è volutamente composto e aggiustato nei minimi dettagli. In un’unica operazione tento di tenere insieme varie immagini legate alle nature morte del seicento e ai monumenti funebri che si combinano a ricordi di ossari e reliquari visti in alcune città del sud Italia.
Chiara Bettazzi, Wonder Objects (dettaglio), 2013-2018
ilmondoinfine: vivere tra le rovine. Questo il titolo della mostra della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea che ospiterà il tuo lavoro fino al 23 gennaio 2019. Come interpreti questo titolo? Le rovine come deriva o come approdo?
Le rovine rappresentano per me, sia una deriva che un approdo, unite in un unico processo in cui il lavoro costantemente vive.
In questa occasione specifica rappresenta la sintesi di un ciclo di sperimentazioni e lavori che da anni indago e che qua, prende forma in maniera definitiva fissandosi nello spazio e in una composizione che in questo momento sento conclusa.
Tutto il lavoro nasce da continui spostamenti e da continue combinazioni che allestisco all’interno del mio studio a Prato. Per la mostra Il mondoinfine ho attuato un quasi trasloco da Prato a Roma, che ha permesso di avere tanto materiale con cui lavorare direttamente all’interno del Museo in questi giorni. Da qualche anno ho smesso di raccogliere oggetti e procedo seguendo la direzione dell’esaurimento di ciò che ancora è presente in studio; questo tipo di processo sta portando inevitabilmente a uno svuotamento dello spazio e alla scomparsa dell’uso dell’oggetto quotidiano all’interno del lavoro.
Chiara Bettazzi, Wonder Objects (dettaglio), 2013-2018
Che ruolo ha per te la rovina in una città come Roma, dove archeologia, mito e invenzione si intrecciano?
Le città, nello specifico Roma, rappresentano una sorta di stratificazione temporale dove tutto può convivere, tra archeologie del presente e archeologie del passato. La Rovina è un derivato plasmato dal tempo, un segno, una traccia di ciò che rimane di un passato e della sua storia, in cui si può leggere il senso del nostro presente. Quindi credo che vada preservata come memoria, in quanto rappresenta uno dei fattori di riconoscimento non solo di un luogo ma di riconoscimento per le persone stesse che lo abitano.
Chiara Bettazzi, Wonder Objects (dettaglio), 2013-2018
Spazio antropizzato e spazio incorrotto: una possibile convivenza?
Credo che entrambe le cose possano convivere, solo se fatte esistere in maniera sapiente.
Io da sempre preferisco gli spazi in cui si respira un senso di autenticità, dove il tempo sembra essersi fermato in un preciso istante. Dove all’interno del rapporto spazio tempo si sedimentano cose e dove la trasformazione di uno spazio è lasciata alla naturale modificazione.
Ma credo anche che l’uomo riesca ad attuare bellissime convivenze, attraverso il rispetto delle forme originali, di recuperi attuati con estrema delicatezza, senza scadere come spesso purtroppo avviene in eccessive ricostruzioni. Talvolta può succedere che nuove architetture si inseriscono magicamente e armoniosamente nel paesaggio circostante. Tutto è relativo e dipende da un’estrema e necessaria sensibilità.
Memoria, archivio, tempo. Come si sviluppano queste tematiche nei tuoi lavori?
I tre concetti s’incatenano insieme all’interno della mia indagine, che in questa ultima fase del lavoro, sta assumendo sempre di più un carattere documentativo.
Attraverso il mezzo fotografico registro costantemente cambiamenti legati al tempo, o ad alcuni spostamenti che nella prima parte della mia indagine erano legati allo studio degli oggetti. Compongo spesso diari di memorie, in cui quotidianamente si susseguono immagini di composizioni. Il mio studio (ex edificio industriale) si è rivelato il luogo ideale in cui attuare un’archiviazione degli oggetti, costruendo vari display che li contengono. Da qualche anno il mio interesse si è spostato sempre di più, verso il paesaggio industriale della città in cui abito, quindi sto lavorando principalmente a un’archiviazione di tutti gli edifici storici legati all’industria. Tramite la realizzazione di una mappatura divisa in categorie, documentando lo stato attuale dei fabbricati e recuperando immagini d’archivio di archeologie industriali, ho iniziato a scattare immagini dallo stesso punto di vista, cogliendo le trasformazioni talvolta radicali che il tempo e l’uomo hanno apportato oggi.
Chiara Bettazzi, Wonder Objects (dettaglio), 2013-2018
‘Io sono una forza del passato / solo nella tradizione è il mio amore…’ recita Orson Welles (leggendo una poesia dello stesso Pasolini) ne “La Ricotta”, il film girato tra la via Appia Nuova e la via Appia Antica nell’autunno del 1963. È una disperata dichiarazione di poetica, il sentirsi estraneo ad un futuro che le premesse descrivono come un deserto culturale. Qual è il tuo sguardo sulla situazione artistica contemporanea?
La situazione artistica contemporanea credo sia un complicato sistema di relazioni, rapporti e presenze da mantenere che sono distanti dal lavoro di un’artista.
Oggi siamo obbligati a essere inseriti all’interno di un sistema di comunicazione in cui il web ha assunto un ruolo principale portando quindi l’artista (che comunica attraverso le opere) a compiere un ulteriore sforzo che lo distrae e spesso lo appesantisce rispetto alla creazione.
Sempre meno sono le frequentazioni degli studi degli artisti che continuano a riflettere come sempre la vera anima di una ricerca; quest’assenza distanzia dall’esperienza diretta con le opere riducendo spesso a racconti che vengono riportati sui canali web. Quindi se da una parte si assiste a un’estrema velocità informativa, dall’altra si registra un livellamento della qualità dell’informazione, dato da un eccessivo uso della fotografia sempre più standardizzata.